giovedì 2 aprile 2009

MARE D’INVERNO (inizio)

Racconti dell’Adriatico





Racconto vincitore della terza edizione del Premio Europeo “MER; dire il mare, dire le genti” organizzato dal centro internazionale di ricerca e documentazione sui vissuti e l’aggregazione sociale nelle culture del mare.

© Copyright 1995 by Renzo M. Balsimelli




Costoro sono attenti ai vari giochi delle forme e della luce,
a tutti i soffi erranti alla superficie versicolore del mondo.
Non li incalza il senso della vita, ma la vita stessa che passa.
Cercano di captarla senza pietrificarla.
Né si affaticano a sovraccaricarla di simboli o di pensieri


henry focillon







I miei piedi calpestano sestini di cotto 6x6x24 disposti a lisca di pesce, una fuga di circa un centimetro crea un velo patinato, soprattutto in lontananza, dove lo sguardo incide molto obliquamente come i raggi di questo sole invernale. Le suole risuonano seccamente sui muri di pietra arenaria nelle strette vie del centro storico, le onde sonore rimbalzano da un ostacolo all’altro: da una porta di rovere ad uno scuretto d’abete, da una panchina in calcarenite ad un lampione in ferro battuto, da un vetrocamera ad una tenda in tessuto sintetico fino ad arrivare nell’incavo cartilagineo del mio orecchio. Questo suono, questo ritmo, si confronta con quello del cuore che batte un po' stranamente perché non è più abituato alle difficili erte del centro, ne esce una musica sincopata con una leggera dissonanza tra i due strumenti di percussione.
Le strade rosso mattone sono sgombre, non si vede nessuno. Anche in quelle più turistiche, che ho abbandonato per stare solo con me stesso, poca gente e qualche commerciante che, appostato al caldo dietro la porta vetrata in alluminio dorato, aspetta, con lo sguardo perduto, l’arrivo di un qualche cliente. Una volta abitavo dentro queste mura; anche allora d’inverno c’era poca gente; a volte tornando dal cinema, dopo aver assistito alla proiezione pomeridiana per bambini, riuscivo a non incontrare nessuno: i turisti sparivano, gli abitanti si rintanavano nelle loro abitazioni al caldo a preparare la cena, restavano solo occhi di gatto e latrati di cani. C’era ancora il vecchio Cinema: la platea aveva le dimensioni giuste per un bambino, il giro dei palchi come i ballatoi delle case attorno alla piazza, il loggione misterioso, il soffitto più lontano del cielo stellato; le sedie erano scomode e scricchiolavano, le mandibole sgranocchiavano ogni tipo di ciofeche, i commenti erano spontanei e salaci, nelle pause si sentiva il rumore del proiettore. Per anni mi è rimasto impresso un bellissimo e lunghissimo film: “Il giro del mondo in ottanta giorni” che aveva scatenato nel bambino la voglia di avventura. Rivedendo poi quella pellicola in TV, molti anni dopo, dovetti amaramente ammettere la sua inconsistenza e anche quanto fosse stupido e imbranato David Niven che allora mi era parso un mitico eroe. Anche il Teatro, quando torno per assistere a qualche rappresentazione, mi sembra troppo piccolo, quasi lillipuziano, come se non avesse retto alle mie aspettative in rapida e vorace crescita. Ma la magia di quelle ore al buio, svolazzando nel tempo e nello spazio della fantasia, in quell’aria un po’ soffocante, la polvere dei tendaggi, l’odore del legno, il sapore dei pop corn e della liquirizia è rimasto intatto, oggi come allora. Queste sono state le strade della mia infanzia, quando correvo dietro la palla sui cubetti di porfido posati ad archi sovrapposti o quando, ricoperte di neve, diventavano la pista per la scaranina; questi muri di pietra grezza erano il mio avversario tennista imbattibile, queste mura merlate il mio fortino contro l’attacco degli Apache, queste rocce affioranti le mie riserve di caccia per le lucertole, uccise con fionde e fucili ad aria compressa, mentre quelle catturate venivano rinchiuse in casette di lego®.
Ora le cose sono molto cambiate: i pochi abitanti sono diventati ancora meno e tra breve spariranno, nessuno ha pensato a proteggere questa specie in estinzione; gli ultimi portoni di ingresso agli alloggi si sono trasformati in serrande di negozi, le pietre affioranti sono state regolarizzate e le cave di pietra chiuse, le vetrine al neon nascondono la trama di calce. La Città ora sembra un grosso centro commerciale di importazione come tanti altri, forse solo un po' più curato, le mura potrebbero diventare il recinto del titanmarket da serrare dopo l’orario di chiusura, come nel medioevo dopo il tramonto, solo che dentro rimarrebbe solo la merce alla luce bluastra delle lampade di sicurezza. Ma tutti hanno avuto il loro tornaconto e sono contenti, o incoscienti, e chi non ha preso parte al gioco, ora non ha neppure la voce per lagnarsi. Provo ancora un forte senso di disagio ricordando il corteo al funerale della mia maestra che, qualche anno fa, percorreva queste vie che collegano la Pieve alla Porta. Questa gente, affranta e silenziosa, si trovò, girato un angolo, nella baraonda dello shopping domenicale: la luce dei neon intermittenti, i faretti delle vetrine, gli sfavillii delle collane d’avorio e di corallo, le note dei compact disc, le balestre made in Taiwan, le bottiglie di amari e spumanti, l’odore forte degli hot dog, l’andirivieni degli orologi a cucù, i baciaccoli più vari e inutili. Il dolore era fuori luogo ed infatti per vendere e per comprare non bisogna essere tristi. Alcuni bambini si rincorrevano e ridevano facendosi i dispetti, gli adulti guardavano il corteo con malcelata impazienza, gli amici, separati momentaneamente dalla folla, aspettavano la fine della sfilata per riunirsi. Anch’io avrei voluto accelerare il passo, volare in un altro luogo o in un altro tempo, un’altra dimensione. Era come se la gente chiassosa, i negozi illuminati, i muri imbrattati, le insegne vistose, tutto il paese stesso espellessero con forza un suo cittadino dai luoghi che avevano segnato un’intera esistenza. Un funerale come una farsa, l’accompagno come un circo di provincia, la morte come uno spettacolo sgradevole in cui non si può cambiare canale. In queste strade non c’è più spazio neppure per morire!
Cammino dritto cercando di seguire la lisca centrale della pavimentazione, un passo dopo l’altro, ogni tanto alzo lo sguardo ma vedo solo quello che vedono i miei pensieri: la Porta Medii, il Palazzo Vecchio, i Cavalieri Poligonali, la Pusterla del Cantone, gli orti a gradoni, i muri a secco e il selciato della Costa delle Monache, il Palazzo degli Uffici ed il porticato di collegamento con quello Pubblico.
Poi d’improvviso arrivo al Cantone ed invece del solito panorama, un mare bianco di bambagia. La pianura è ricoperta da una densa nebbia che brilla come zucchero filato sotto i raggi del sole invernale. E’ un sole che illumina drammaticamente le superfici, mette in risalto i volumi, rende netti i chiaroscuri, assoluti i colori, ma non scalda più la pelle. Mi giro attorno: dove era il mare blu ora è un mare bianco, l’entroterra pare un golfo esotico dove appaiono strani promontori ed isolotti, il Carpegna come un grosso vulcano con un ciuffo di neve in cima. Forse alcuni millenni fa il panorama che si poteva mirare da quassù non doveva essere molto diverso da questo, ma c’erano senz’altro più foreste e orsi. Come è strano pensare che sotto quel velo di nebbia schiacciato dall’alta pressione ci siano delle città, delle strade, delle campagne, delle persone, il mare... Il mare bianco sembra solido come la terra e a nessuno verrebbe in mente che sotto la terra ci siano altre città, altre strade, altre campagne, altra gente, altri mari... Il mare d’inverno copre il mare estivo, quello estivo il mare del nostro sottosuolo, come una matrioska ne racchiude un’altra senza fine. Ogni livello è un oceano a parte che vive ignorando l’esistenza degli altri.
Il turista della domenica non si sarà mosso da casa con questa nebbia... e sarebbero bastati solo pochi chilometri per sbucare nel sole, dal bianco all’azzurro appena striato da lunghi cirri. Poggio le mani sull’arenaria del parapetto del belvedere macchiato di muschio, il suo scheletro trattiene ancora briozoi tropicali, ostriche, conchiglie e ricci di mare; il freddo e l’umidità accumulata nei suoi pori si trasferisce nei miei tessuti; l’umore, già grigio, diventa di pietra. Il cannocchiale a gettoni è uno strumento inutile, non c’è nessun dettaglio da mettere a fuoco, tutto è generico, o bianco, o nero o azzurro.
Mentre guardo i cavi della funivia che si perdono nel vuoto, mi appare vaga la cuspide di un campanile, il cerchio dell’orologio, poi altri tetti attorno ad una piazza, il Borgo sembra un villaggio sommerso dall’oblio. La mente associa subito altre cose disperse e perdute per sempre sotto un velo di indifferenza e cinismo: la voglia di giocare con le forme e i colori, il proposito di imparare la musica, il viaggio attorno al mondo, la brama di un amore totale in cui perdersi, il desiderio di essere utile ad altri, i grandi progetti...
Improvvisamente ricordo di una giornata storta come questa, qualche anno fa; allora non c’era la nebbia ed andai al mare dove riempii un rullino di diapositive in poco tempo girando come un barbone per la spiaggia selvaggia. Questo stupido ricordo potrebbe sparire come tanti altri dopo qualche secondo e invece si fissa nella mia testa e non mi lascia, la mente scava, ma vengono a galla solo piccoli pezzi, relitti. Ma le diapositive esistono ancora. Un insopprimibile bisogno di rivedere quelle immagini mi stacca dalla pietra del balcone più bello di Romagna e mi spinge verso casa. La pelle si era attaccata alla roccia come al ghiaccio, ma non sento dolore, non sento più niente...
Questa volta faccio la via più corta, fatta di mille gradini: via Eugippo, il taglio del Giardino dei Liburni, l’Ara dei Volontari, contrada Omerelli, contrada delle Mura, il baluardo dell’Orto del Collegio,...le Piagge. Una fretta inspiegabile non mi fa vedere più niente, il fiato si condensa sulla fronte, uno strano calore mi prende tutto il corpo. Nello studio cerco il contenitore giusto, avevo avuto paura di non trovarlo, eccolo! Una etichetta sbiadita dice MARE D’INVERNO, più in piccolo peep fiera. Estraggo il caricatore, cerco il proiettore, attacco la spina, manca l’adattatore, lo cerco, lo trovo, il tempo non passa mai! Tolgo il poster col fotopiano di Venezia dal muro, lo volto sul lato bianco, accendo lo stereo, oscuro l’ambiente girando le veneziane e nella penombra finalmente sono pronto; accendo l’interruttore, una potente lampada alogena da 150 W si accende ed emana calore, la ventola gira...