venerdì 20 novembre 2009

IDHRA

Guscio in vetroresina 10 m x 3,40 m, velatura 66 mq; Io Tu Lui Jessica e Dustin Hoffman: 5 persone x 7 giorni & 7 notti sull’adriatico tra Romagna e Dalmazia. Io montanaro alla prima esperienza in vela, Tu pure ma di pianura. Forte differenza d’età, forte l’intesa: nasce naturale col passare delle ore, mentre il Montefeltro si liquefa nell’afa; s’alimenta ai soffi del vento che spande fragranze di crema e di pelle, quando il mare è l'unico elemento; si consolida con la passione per McCourt e il nuoto, fino a legarci gli occhi miopi e visionari in una gassa d'amante. All’imbarco sull’assolato molo di Rimini, distratto dai lavori in corso, non ti noto neppure e poi Tu e Lui siete già accoppiati sentenzia Dustin lo skipper… Io mai visto prima Jessica, e allora dormo nella dinette con Dustin. Mi butto sulla vela e vado subito al timone; ma il vento cambia direzione e senza preavviso m’imbatto nei tuoi occhi arabi e in quel sorriso di bambina trovo qualcosa che stavo cercando. Tu reggi il mio sguardo curioso, fai la linguaccia e ti diverte il mio disagio d'uomo saggio. Lui è lì, alla randa o al fiocco, che cazza o allasca, e Io penso mi vogliono incastrare nelle loro fisime di coppia… Jessica è simpatica, ha le vocali larghe, ma non è il mio tipo; l'accosto come diversivo, una copertura vana, ché tanto Dustin, vecchio lupo, non sbaglia un colpo; mentre Lui pazienta: ti ha già perso una volta e dev'essere stata dura. Tu mi chiami Rocco con quell'accento fresco e furbetto che m'intrappola: tentare l’ammutinamento, il naufragio o imporsi di veleggiare nella brezza e arrivare in porto? Quella notte alle Incoranate nella caletta, dopo la spanciata di cozze, in coperta attendo invano la tua risalita, spontanea o suggerita dal pancino, e non una stella ma tutta la via lattea mi cade addosso. Poi sguardi fugaci, piedini sotto il tavolo, allusioni da liceali in gita, un tramonto in compagnia e un’alba solitaria, un corpo umido avvolto tra cerata e asciugamani e tante cose non dette… M'illudo sia il nostro gioco con Lui come arbitro attento; solo a terra scopro che è qualcosa di più, e ci sto male, perché Tu spacchi la mia vecchia corazza, rimescoli le carte e mi fai cantare, ridere e piangere. Tu riparti con Lui, Io saluto Jessica e Dustin e risalgo il monte; nelle orecchie ancora il canto assordante delle cicale, e non posso non sentirmi simile a loro.


domenica 8 novembre 2009

Espresso 823 “freccia del sud” Carrozza 1 compartimento 7 Notte di San Lorenzo (3p)

Napoli - Catania (3p e ultima)

A coppie i tiratardi chiacchierano aggrappati ai finestrini, i loro discorsi sono portati subito via dal vento e non ne resta traccia alcuna, come non fossero mai stati pronunciati; eppure erano certamente interessanti per vincere il sonno e la stanchezza del viaggio, eppure erano di sicuro sciolti dopo aver rotto le barriere del conformismo che avevano imbrigliato i primi scambi; eppure erano senz’altro necessari perché nessuno voleva mettere il punto.
Ma per tutte le cose c’è un tempo, anche per quelle belle. Rocco, che forse è più consapevole degli altri di questa dura legge, è il primo a mettere il punto, non prima di aver inalato un’ultima sorsata d’aria fino a riempirsi tutto il corpo di quell’odore. Gli è toccata la cuccetta bassa, o meglio ha fatto il signore con Alfio lasciando ai ragazzi le cuccette medie e alte.
Rocco si toglie di dosso solo le lenti a contatto e le scarpe da trekking, ma è come se si fosse isolato in un altro mondo dove tutto è sfuocato e confuso, tutto possibile e ineffabile. Gli piace questa visione da miope, quando le luci si spandono nell’alone rotondo e i contorni svaniscono come in una tela impressionista, dove ogni immagine può avere innumerevoli traduzioni e i colori sembrano più importanti. Eppure, mentre perlustra il soffitto della cabina con gli occhi che sembrano seguire il volo accidentale di una mosca, Rocco sta pensando all’operazione per correggere la miopia; gliela hanno proposta da anni, l’ha sempre rinviata forse per paura di complicazioni o forse per non perdersi quel film a sbafo che vede ogni sera prima d’addormentarsi, ma ora s’è convinto e il lasik sarà il primo pensiero tornato dalle ferie.
Anche Alfio si sistema nel suo loculo, pure lui tutto vestito, ma, contrariamente a Rocco, si nasconde sotto le lenzuola di carta. I ragazzi ancora cincischiano e scherzano e ridono di quella insolita situazione; le femmine scelgono le cuccette alte che forse si balla di più, ma c’è più aria. Marco le ha già provate tutte prima dell’adattamento dei lenzuoli, Michele ha deciso che si sistemerà su quella opposta a quella di Marina, così potrà parlarle. Le ragazze vanno alla toilette e rientrano in cabina quando tutti i maschietti sono orizzontali; Rocco, cullato dal moto del treno, si libra in quello spazio tra la Terra e il mondo dei sogni, in quell’attimo che si vorrebbe bloccare, quando le membra sembrano impalpabili e indipendenti dalla nostra volontà e pure i pensieri paiono andare per la loro strada.
“Ti metto la scaletta?” chiede Michele. “Ma… vediamo… forse si, è meglio” risponde Marina svagata. Michele anche nelle faccende pratiche riesce a fare casino; la sua confidenza con la scala è la stessa di quella che passa tra un’australopiteco e un ascensore. Marco per facilitare le operazioni accende e spegne la luce centrale e prova quelle per la notte. Michele sta per mandarlo a cagare, quando inavvertitamente riesce a fissare la scala, inserendo i perni nelle apposite asole, come avrebbe detto il controllore. Ma ecco che Alfio, nel tentativo di aiutarlo, con uno scossone fa subito fuoriuscire quei perni che avevano trovato con tanta difficoltà la sede opportuna. In due le operazioni procedono ancora più a rilento e anche la sorte, probabilmente offesa, volta la testa dall’altra parte. Alfio deve rimettersi in verticale per sistemare finalmente la scala e tirare una madonna al ragazzino per vedere quel che sta facendo.
Pure Rocco è ripiombato da quel luogo magico e riprende gradualmente possesso dei suoi sensi offuscati. Adesso è tornata la calma e finalmente Marina può accingersi alla scalata. Ha ancora indosso il tubino bianco e i piedi scalzi, ma sale con un’eleganza di zebra, direbbe l’avvocato che suona il piano… “Non guardate ragazzi” civetta la vamp nell’affrontare i primi gradini. Alfio non fiata ma non è mai stato così sveglio e attento, Rocco vede una forma elegante salire verso il soffitto e immagina quello che forse si vede o non si vede, ma che si può ben immaginare. Con un ultimo saltello la sagoma bianca scompare dietro l’asse scura della brandina e resta solo una scia di profumo nell’aria e un eco che rimbalza nell’orecchio: ragazzi, agazzi, gazzi, azzi, zzi.
Francesca nel frattempo deve essersi arrampicata per una via alternativa, perché Rocco non vede altre ombre salire, come il vapore, verso l’alto. La luce resta ancora accesa, nonostante ognuno abbia preso posto nei rispettivi vani e si potrebbe giurare che a spegnerla non sia stato Marco.
Sono circa le due e non c’è tempo se non per un “Buonanotte”.
È il momento delle respirazioni profonde, delle ronfate, delle russate, delle digestioni difficili, insomma di tutti quei rumori repressi durante il giorno e ovviamente… il regno dei sogni.
Nei sogni di Alfio una moglie che non fa tante storie e un telefonino muto; in quelli di Marco i bagni di mare e gli scherzi da fare alla compagnia; in quelli di Marina la difesa di un noto criminale e un uomo davvero speciale con cui dividere l’esistenza; in quelli di Francesca di essere notata da Marco o eventualmente da qualcun altro altrettanto carino; in quelli di Michele la ragazza napoletana e le imprese dell’agente speciale 007; in quelli di Rocco di legare una come Marina e non con Una che lo farà soffrire.
È ancora notte quando il convoglio si ferma a Villa San Giovanni, dopo aver sostato a lungo a Bagnara Calabra. Alfio ha già fatto fagotto: s’è imbarcato a piedi sul traghetto per guadagnare tempo e far contenta la famiglia. I ragazzi s’alzano poco dopo e le ragazze vanno subito in bagno, solo Rocco resta a poltrire nella cuccetta. La notte è stata breve, fredda finché ha girato l’aria condizionata, calda poi. Rocco sentirebbe forte il desiderio di una doccia, ma i sogni sono finiti. Svogliatamente s’alza pure lui, che teme di ostacolare le manovre degli altri e va nel corridoio, dove gli accampati sono già in piedi e molti hanno seguito l’esempio di Alfio; le porte delle altre cabine sono chiuse. Da una mano ai ragazzi a ripiegare le assi e a risistemare i sedili, mentre ritornano le ragazze dopo la seduta di trucco. Rocco inforca gli occhiali per vedere meglio e Marina gli dona uno sguardo indiscreto: “Buongiorno Rocco”, “Buongiorno Marina”. Non trovano altre parole; invece i ragazzi sono già logorroici e infastidiscono le manovre di Francesca.
Le manovre del convoglio invece procedono celermente e in breve questo viene spezzato in tre tronconi e imbarcato sul traghetto delle FS. Qualcuno cerca il controllore, qualcun altro spera non lo trovi. Poi tutti devono lasciare le carrozze e trasferirsi sul ponte.
Nel trambusto che segue la compagnia della cabina 7 si sfalda, che già aveva perso un elemento. Rocco si gira tutta la nave come un segugio, un po’ per sgranchirsi, un po’ per vedere cosa offre di buono la nuova giornata che sta per iniziare. Dicono che in queste occasioni si fanno incontri interessanti… ecco la prof. Saluta Rocco e lui si ferma un attimo e per gentilezza chiede come è andata la notte nella cabina deluxe: tutto bene pare. Ci sono molti turisti e tanti altri tornano sulla penisola con traghetti che procedono nella direzione opposta. L’acqua è di un blu profondo e intenso, che contrasta incredibilmente con il bianco-verde della spuma creata dall’elica e dalla carena. Il cielo si sta sbiadendo e non pare promettere una giornata di sole; il panorama dello stretto è affascinante, soprattutto a quest’ora del giorno; l’ingresso nel porto di Messina è come un bel film che finisce sempre troppo presto.
Si rientra nei vagoni che sono rimasti sotto coperta e si sono persi questo spettacolo. Rocco fa sfollare la ressa e rimane ad ammirare l’orizzonte assieme a due ragazze che aveva notato alla stazione di Bologna per il loro abbigliamento succinto e lo strano modo di fare, e che ora si sbaciucchiano senza ritegno (come sarebbe contenta Marina di vederle… e come si compiace Rocco che lei non le abbia viste). Da questa vista il nostro bellimbusto trae tristi presagi sulla sua vacanza sicula e si precipita giù in cabina.
Gli altri sono già tutti ai loro posti e lo accolgono con la proposta di un’abbondante colazione. I bagagli sono ancora ricchi di sorprese, cornetti, biscotti, merendine, cornflakes, succhi e te in tutte le varietà. Dato fondo a tutte le scorte, l’impresa più grande è quella di tenere gli occhi aperti. Il sole basso sull’orizzonte si specchia sul mare e s’insinua negli spiragli tra gli edifici e, ad intermittenza, sbatte contro gli occhi dei viaggiatori, che alzano un attimo le palpebre e poi le stringono forte come a scacciare uno scocciatore.
Per sottrarsi a questa tortura Marina guadagna il corridoio che, con tutti i finestrini abbassati, sembra la galleria del vento della Ferrari; volano i capelli sottili, svolazzano i lembi del tubino, sbattono gli occhi tra le linee del rimmel e ancor di più sfarfallano i fanali degli astanti appoggiati alle pareti sudice del convoglio. Lei inforca un paio di occhiali a farfalla per non piangere, mentre il treno rallenta, rovinando lo spettacolo. Rocco ha deciso che un po’ d’aria farà bene pure a lui, s’avvicina alla ragazza ed insinua il suo volume nello spazio lasciato libero da lei nel finestrino; lei non può non notarlo, ma continua a mirare il paesaggio col mento appoggiato sulle mani, queste aggrappate al bordo della finestra, il viso in direzione del moto, la chioma centrifugata dall’aria che sa di terra e di mare. Anche Rocco deve buttare fuori la testa per non restare soffocato da quei capelli che sanno di legno di sandalo; la testa girata dove guarda lei, le narici a catturare ogni fragranza mattutina, i gomiti che toccano quelli di lei, la mente che sembra come resettata.

Il vulcano ha un cono che non ti immagini; peccato che la vetta sia nascosta dalla caligine e solo a tratti pare di intravedere il pennacchio di fumo, ma potrebbe essere una nuvola caduta troppo in basso. Sul disco accidentalmente riformattato arriva finalmente un file: le recenti eruzioni dell’Etna che minacciano gli abitati aggrappati alla montagna.


Nel momento in cui sta per aprire bocca, lei si gira e lo guarda come se fosse sorpresa di trovarlo lì, a pochi centimetri, a bocca aperta contro il vento e quegli occhiali da dottore così poco aderenti al personaggio; scoppia una risata fragorosa, contagiosa, anestetizzante.
Rocco non saprebbe dire se le parole gli sono uscite veramente di bocca o gli sono morte in gola come un ultimo respiro o disperse dal turbine prima d’arrivare a destinazione. Lei ride e si passa un braccio sulla testa a raccogliersi i capelli ribelli; lui vorrebbe piangere, invece sorride, ride come un imbecille. Se lo vedessero gli amici… sto diventando vecchio riflette. Non riesce più ad articolare parola e neppure a muoversi, resterebbe lì per sempre aggrappato a quel finestrino, in quella mattina d’estate, quintali di sonno addosso e un pizzico di struggente malinconia, accanto a quella dea che ride, chissà cosa c’è da ridere?
Solo l’orribile periferia di Catania col suo fetore persistente li stacca dal vetro; lo fanno assieme, come da tacito accordo. Michele ricorda alla comitiva che il tempo per l’autobus stringe e ci si deve dare una mossa; tirano giù i bagagli e se li distribuiscono, i più leggeri (quelli che contenevano i viveri) alle ragazze. Trilla il telefonino di Marina. È papa, vuole accordarsi per andarli a prendere alla stazione dei pulman; lei risponde che sono ancora in treno (un’ora di ritardo…) e lo richiamerà quando sarà finalmente sull’autocorriera, poi passa l’apparecchio al fratellino.
Rocco non ha fretta, deve passare altre due ore in stazione, aiuta gli altri con le valigie poi si defila e riprende il mano il signor Malaussène: ha deciso che lascerà sfollare tutti quanti.
Non riesce a trovare il segno, la cartolina era caduta sul pavimento e non ricorda nulla di quel che ha letto il giorno prima; avrebbe la tentazione di lanciare Pennac dal finestrino o di regalarlo alla ragazza, poi si ricorda che deve arrivare in fondo per capirci qualcosa e che Una potrebbe chiedergli un parere.
Finge di leggere, in realtà segue il moto del treno, la lenta ed estenuante decelerazione, gli sballottamenti trasversali, i laceranti contatti delle ganasce dei freni sulle ruote metalliche, l’inerzia di tutto il convoglio alla definitiva fermata come se il viaggio non fosse durato abbastanza: sono appena scoccate le nove e fanno diciassette ore di sequestro dal mondo.
I saluti con i ragazzi sono stati sbrigativi: Michele e Francesca accennano appena un gesto con la testa e subito s’avventano nel corridoio in cerca della poule position, Marco è più espansivo e quasi cameratesco con la sua pacca sulle spalle, Marina sorprende con un “ Rocco mi raccomando… fai il bravo”.
Tra una riga e l’altra Rocco ripensa a quel momento, a quella frase buttata lì, a quel silenzio non da lui, ancora intrappolato da quel sorriso disarmante.
“Signore non scende?” Toh chi si rivede… il controllore. Tutto zelante s’informa se per caso c’è qualche problema, qualcosa che non va. Come fa Rocco a far capire a quella macchietta cosa non va? Ci prova, gli parla come parlando tra se, aiutandosi anche con i gesti, ma lui dopo un accenno di inchino e un mezzo minuto d’attenzione torna a precisare: “comunque la corsa termina a Catania ed è dovere del viaggiatore prepararsi per tempo a scendere alla stazione prevista dal documento di viaggio e a non dimenticare alcun bagaglio sul convoglio, le ferrovie infatti non rispondono dei colli lasciati incustoditi”.
“O.K., tutto O.K.” rassicura Rocco allargando le braccia e alzandosi per prendere i suoi sacchi.
L’ometto pare rinfrancato dagli atteggiamenti collaborativi del viaggiatore e si allontana soddisfatto verso due giorni di sacrosanto riposo.

Sulla banchina del primo binario fa già un caldo africano e per arrivare in stazione bisogna risalire tutto il convoglio, che nelle operazioni di montaggio e smontaggio la carrozza n.1 è ritornata di nuovo ultima. L’atrio è affollato di turisti e per gli autobus si deve attraversare un enorme piazzale asfaltato con la superficie increspata come un mare dove galleggiano tappi, cicche, carte colorate e mucchietti di cenere. Ma ogni pensilina, mensola, sbalzo, ripiano, cornice, superficie non verticale è ricoperta da un velo di cenere scura tanto che pare d’essere capitati in una cittadina della Ruhr.
Rocco maledice la sua mania di portarsi la casa dietro e si passa di mano l’ingombrante sacco ogni venti passi; poi s’infila nel bar della stazione e non trova di meglio che abbinare un te freddato con pezzi di granita al limone e un arancino ripieno d’acciughe; nessuno, ne alla cassa ne al banco, lo avverte dell’insolito accostamento e lui è troppo stanco e distratto per sorprendersi della eccessiva audacia, anzi si lecca le dita e succhia dal bicchiere anche l’ultima goccia di conforto. Rocco pensa: ma chi me l’ha fatto fare? Se uno viene in Sicilia in agosto poi non può neppure lamentarsi… ma è troppo tardi e faticoso tornare indietro, allora si carica il saccone sulle spalle e si getta nel mare d’asfalto come chi s’appresta a fare un salto nel vuoto.