sabato 28 marzo 2009

SABBIA ED AGHI DI PINO

Racconti dell’Adriatico





Racconto finalista alla seconda edizione del Premio Europeo “MER; dire il mare, dire le genti” organizzato dal Centro Internazionale di Ricerca e Documentazione sui vissuti e l’aggregazione sociale nelle culture del mare.

© Copyright 1994 by Renzo M. Balsimelli




Ci sono tanti morti nella mia vita,
e più morto di tutti
è il ragazzo che io fui.


georges bernados





Mi capita tra le mani una vecchia fotografia e qualche giorno dopo un giornale con la presentazione della seconda edizione di un concorso letterario aperto a tutti, anche a chi non ha mai scritto nulla. Avviene il corto circuito: la foto deve diventare un racconto. Quella immagine immobile di tanti anni fa, dimenticata in qualche cassetto, deve diventare pulsante ed attuale; quei volti devono ritrovare un nome, quegli sguardi un orizzonte, quel paesaggio i suoi profumi, quel tempo una data, il piano una tridimensionalità... il tutto in non più di seicento righe.
E' una fotografia a colori (AgfaColor) senza data, come in genere si ha la pessima abitudine di non mettere; sul retro solo uno strano numero che indica chissà quali processi di sviluppo fotografico. Un gruppo di bambini, ventitré per la precisione, sono disposti abbastanza caoticamente su tre file, la prima compatta e più numerosa (le altre é difficile chiamarle file), davanti alla nuova, allora, colonia della piccola repubblica del Titano a Pinarella di Cervia. E' un edificio di tre o quattro piani ad U con l'insenatura rivolta verso la strada e la pineta, in stile moderno, ma senza alcuna pretesa se non quella di essere anonimo: al piano terra e lungo il vano scala grandi infissi metallici dove i vetri sono fissati con un cordone di plastilina, ai piani superiori una lunga e regolare teoria di finestrelle rettangolari, la tinta del paramento é del colore della sabbia, i marcapiani sono chiaramente segnati da un piccolo aggetto e da una tinta grigia, il tetto non si vede, ma doveva essere piano... Precedentemente la colonia si trovava in altra località, mi pare vicino a Gatteo Mare, in uno stabile vecchio e fatiscente che ricordo appena, immerso anche quello in una pineta o qualcosa di simile. Ebbi comunque modo di soggiornare, come si diceva allora, anche in quella, ma i ricordi sono vaghi e si riassumono negli enormi cameroni con i letti da ospedale in ferro verniciati di bianco, le coperte marroni di lana con qualche ghirigoro color panna, gli infissi ed i soffitti rigorosamente bianchi, mentre i muri fino ad una certa altezza dipinti in tinte scure, a tenuta di bambini, si raccordavano al soffitto con morbide volute di gesso, i lampadari erano a grossi globi opachi con un mucchietto di mosche morte al polo sud... Dalle finestre aperte giungeva confusa della musica, ricordo distintamente un tipo che cantava "Lisa dagli occhi blu, senza le trecce la stessa non sei più...".
Ma perché si dirà ricordo così bene questi stupidi dettagli! Credo principalmente perché passavo interminabili ed afosi pomeriggi a pancia all'aria sul letto leggendo qualche Topolino o guardando appunto quella superficie leggermente ondulata e macchiata che serviva da sfondo alle mie fantasticherie, in secondo luogo perché gli oggetti e gli spazi architettonici hanno sempre suscitato in me, fin da bambino, un forte interesse e forse per questo si sono impressi con più forza nella memoria. Ma poi chissà quali sono realmente i meccanismi della memoria, i segreti ultimi delle libere associazioni e se veramente queste sono libere, che differenza c'é tra ricordo e memoria, tra "sottosuolo" ed inconscio, se sono davvero efficaci le tecniche della memoria; io non ho avuto mai la voglia ed il tempo per sperimentarle e non inizierò certo adesso. E poi credo che a questo proposito esista un problema di temporaneità e di crescita di difficile soluzione: una sorta di principio di indeterminazione. Tra chi ricorda e chi agisce, non esiste solo una distanza temporale, ma anche una profonda diversità cellulare: le cellule che costituiscono i tessuti dei principali organi, compreso il cervello, non sono più le stesse, il tempo e l'ambiente hanno lasciato il loro segno anche su di essi, il rapporto col mondo e il mondo stesso sono completamente cambiati. Può l'uomo di oggi ricordare il bambino di ieri? e se si, questo avviene con i sensi dell'uno o dell'altro? Si rievocheranno immagini di ieri con parole e significati di oggi, o visioni ricostruite ed ispirate al presente con i significati di allora, i profumi saranno quelli sentiti con il naso di allora o con quello di oggi, in base a cosa si decide l'importanza degli eventi, cosa ricordare e cosa dimenticare? Credo sia un grosso casino ed é forse per questo che ricordare provoca tanta fatica!
Ma torniamo alla fotografia e lasciamo questi problemi agli esperti, ormai la sfida é iniziata. Tra l'edificio della colonia sullo sfondo ed il gruppo di bambini si intravede uno spiazzo opportunamente recintato ed in cui si vedono, disposti in maglia regolare, alcuni esilissimi alberelli di cui sarebbe tempo perso cercare l'ombra per terra; la piccola chioma verde fa quasi tenerezza ed in prospettiva non é più grande del capoccione di qualche bambino. Questo piazzale col fondo in ghiaietto bianco e polveroso era lo spazio in cui avvenivano le parate di regime: alzabandiera alla mattina con inno patrio, adunata a mezzogiorno prima del pranzo e ad ogni ora del giorno prima di uscire. Certo, perché dalla colonia si poteva uscire solo tutti insieme, in fila per due e debitamente scortati da signorine petulanti. Erano dispensati solo gli ammalati, le cuoche e le donne delle pulizie. Parlare di regime é senz'altro anacronistico, siamo nella seconda metà degli anni sessanta, ma le colonie erano invenzioni del ventennio e rimasero per molto tempo legate ad una certa idea educativo-pedagogica, poi per fortuna furono chiuse.
A capo di questa colonia erano due signorine, o meglio due zitellone, poiché "signorina" era il termine riservato alle giovani badanti, due sorelle: una come direttrice, l'altra come infermiera. E' difficile trovare altre sorelle tanto diverse nel carattere anche se l'aspetto era simile. La direttrice era un donnone burbero, mora e con qualche problema di baffi, una voce possente ed uno sguardo pietrificante, insomma un uomo. Era difficile infatti trovare nella sua persona un tratto femminile anche minimo. Anni dopo mi é capitato, per caso, di vederla in lacrime, ed erano lacrime di donna, o meglio le lacrime erano come sempre acqua e sale, ma gli occhi da cui sgorgavano erano di donna. D'altra parte allora la mia idea di donna coincideva ancora con quella di mamma e nessuno delle due sorelle lo era. La direttrice guidava la colonia con pugno di ferro, per fortuna però la sua presenza non era opprimente ma ogni sua apparizione era segno di tristi presagi come le nuvole nere all'orizzonte. Del resto io non ebbi modo di conoscerla meglio della maschera che vi ho ritratto. Più contatti ebbi invece con la sorella che mandava avanti l'infermeria nella quale, al massimo dopo una settimana, puntualmente andavo a finire. Era una donna molto dolce che pur non essendo mamma ne aveva la vocazione. Aveva sempre una parola di conforto per i piccoli malati e possedeva il dono di sdrammatizzare anche le situazioni più serie. Mi pareva impossibile che fosse anche solo lontanamente parente della direttrice, anche perché allora avevo una strana idea della trasmissione dei geni e del loro influsso sul carattere delle persone anche se la famiglia e i rapporti parentali formavano quasi tutto il mio mondo.
Sul piazzale, che ricordo sempre assolato, avvenivano anche le "selezioni" delle squadre, cioè una ventina di bambini venivano affidati alle mani esperte di una signorina educatrice. Per chi ha fatto analoghe esperienze sa che era assolutamente impossibile scegliere sia i compagni di sventura che la signorina, tutto era già stato stabilito da qualche Ente Supremo. Dalla marmaglia informe sbucavano dei cognomi seguiti dal nome al gracchiare dei megafoni posti ad ogni angolo dell'edificio e si disponevano, chi qua chi la, secondo le disposizioni della direttrice. Era un momento di grande pathos, sembrava si dovesse decidere del destino della patria ed al termine delle operazioni quasi tutti erano insoddisfatti, alcuni addirittura piangevano. Dopo i primi anni capii che non c'era lacrima o urlo che potesse cambiare tale procedura ed affrontai spavaldamente la selezione, o meglio con molto disinteresse, tanto nella squadra capitava sempre qualche scemo, qualcuno che si conosceva già ed altri sconosciuti che si sarebbe conosciuto e non erano di solito i peggiori. Diverso era il discorso sulla signorina. Qui in effetti ci potevano essere forti differenze, infatti ognuna di loro guidava la squadra come un capitano il suo plotone e ne infondeva la sua personalità. C'era quella severa e burbera, quella permissiva e buona, quella manesca e di poche storie e quella brutta e cattiva. Proprio quest'ultima una volta mi capito e furono dolori. Era veramente brutta: magra con il viso sempre arrabbiato anche quando dormiva al sole sempre vestita, forse per non mettere in mostra direttamente lo scheletro, i capelli erano sempre arruffati e unti, tutto il resto era insignificante tranne la voce che faceva muovere i nostri trasparenti padiglioni auricolari. Mi chiedevo chi l'avesse costretta a venire in colonia come badante, visto che non poteva essere venuta di propria volontà, e questa era l'unica cosa che me la rendeva sopportabile per qualche minuto. Però non ebbi il piacere di conoscerla a fondo perché, come sempre mi accadeva, mi ammalai e venni trasferito in infermeria ed allontanato dalla truppa. In genere invece queste signorine erano abbastanza mediocri tanto da non lasciare in me alcun ricordo e nessun volto o episodio da descrivere, tranne quella volta che dalle selezioni fui imprevedibilmente assegnato alla squadra di Pupa. Era una creatura bellissima, che pure non ricordo nei dettagli e certamente la descrizione che ne farò non giustificherà quello che mi capitò. Innanzi tutto era una presenza fisica che calamitava l'attenzione di tutti: era bionda, alta, atletica, sicura di sé e per l'accento strano poteva essere anche straniera. Aveva due occhi dolcissimi e soprattutto trattava noi bambini con tanta naturalezza come se fosse stata una di noi o meglio ci faceva sentire tutti più grandi. Mi innamorai, come del resto molti altri compagni, di questa Pupa. Il nome non é inventato, me lo ricordo bene era proprio il suo, almeno così si faceva chiamare, tanto strano quanto azzeccatissimo. Facevamo a gara a restargli il più vicino possibile e ad attirare la sua attenzione, sia all'alzabandiera che sulla spiaggia o durante la passeggiata sulla battigia; ricordo la lotta per sedersi nei due posti vicino a lei al tavolo da pranzo, non dico poi cosa successe per il letto nella camerata.
Nella nuova colonia l'immenso camerone era stato sostituito con camerate che avevano, vicino all'ingresso, lo stanzino della signorina separato da un tramezzo di legno non a tutta altezza e da una tenda a soffietto, da una ventina di letti molto bassi e disposti quattro a quattro, testa contro testa, con dei piccoli comodini attaccati alla spina che reggeva i letti, in fondo una porta centrale che conduceva ai servizi igienici. Questo numero di letti non coincideva esattamente col numero dei componenti di una squadra, per cui a volte alcuni dovevano essere alloggiati in altre stanze. E l'anno della Pupa questo trasloco ebbe tutte le caratteristiche di un esodo biblico. Mi ero fermamente ripromesso di non ammalarmi come gli altri anni poiché il trasferimento in infermeria sarebbe stato insopportabile, dato che ero riuscito a conquistarmi un letto abbastanza vicino allo stanzino di Pupa e pure a tavola non le ero troppo lontano tanto che potevo spesso parlargli. Tutta la squadra era orgogliosa di essere la squadra di Pupa anche perché era invidiata dalle altre che si sentivano come in debito con la sorte... Accadeva però spesso che a sera Pupa sparisse e ci accompagnasse in camerata un'altra signorina che, in quella occasione, pareva ancora più brutta ed insignificante di quel che era. A volte al risveglio, che avveniva con grande strombazzamento di trombe, con nostra sorpresa vedevamo Pupa uscire in vestaglia dal suo sgabuzzino. Era chiaro che aveva dormito, anche se poco, nella camerata; ma quando era rientrata? Possibile che nessuno l'avesse sentita? Altre volte invece lo stanzino, la mattina, era vuoto e non c'era ombra neppure della sostituta che fino a tarda notte aveva controllato che tutti noi dormissimo. Ritrovavamo però la nostra Pupa per colazione o durante l'adunata sullo spiazzale che precedeva il trasferimento collettivo in spiaggia. Assieme ad altri amici colpiti dal fascino della straniera ci mettemmo a pedinarla per cercare di risolvere questo avvincente mistero di sparizioni e riapparizioni. In genere le prime avvenivano tra l'ammainabandiera e il trasferimento nelle camerate per la notte. Decidemmo allora, io ed un manipolo di coraggiosi, di ritardare il rientro in camera di qualche minuto e di appostarci ognuno nelle vicinanze di una uscita della colonia opportunamente recintata come un ovile. Toccò proprio a me vedere la figura scura e saltellante, ma sempre aggraziata di Pupa che correndo si precipitava verso il cancello con un golfino legato al collo. Oltre il cancello c'era un uomo ad aspetterla; quest'uomo sembrava essersi materializzato all'improvviso eppure doveva essere in attesa da tempo, ma anch'io lo ero... La mia attenzione era così concentrata sulla figura femminile che tanto mi aveva turbato che forse avevo scambiato la lucetta arancio della sigaretta per il volteggiare di una lucciola e non ci avevo badato. I due si diedero un poderoso bacio, si scambiarono qualche parolina a bassa voce, poi saltarono su un auto scoperta parcheggiata li vicino e volarono via alzando una nube di polvere e lasciandomi stupito. Il racconto di ciò che avevo visto agli altri complici fu meccanico e poco dettagliato, ma d'altra parte nessuno chiese troppi particolari, era chiaro a tutti che Pupa, la nostra signorina, se ne era andata col fidanzato. Allora di colpo mi resi conto della grande differenza di età che ci divideva; io e Pupa appartenevamo a mondi diversi che solo per una qualche accidentale circostanza si erano incontrati. Il tutto doveva essere già chiaro fin dall'inizio e non ci fu certo qualche avance da parte sua, ma quel modo di trattarci alla pari, di guardarci negli occhi e di parlarci e toccarci come adulti avevano creato una attesa irreale. Prima di allora non avevo mai pensato che una signorina potesse, non dico avere un fidanzato, ma solo un'altra vita oltre a quella della colonia, e che quindi avesse diritto alla libera uscita serale, ma forse questo era dovuto al fatto che di loro in realtà non mi interessava assolutamente niente; che facessero quel che volevano bastava che rompessero il meno possibile. Mi rendevo conto che era del tutto normale che una bella ragazza come Pupa avesse un fidanzato con cui uscire la sera, ma ciononostante era difficile accettare che fosse fuggita con un uomo. Passai qualche giorno a pensare all'impossibilità di questa "cosa" tra me e Pupa che, tra l'altro, non sapendo come chiamare, chiamai amicizia. Ragionai molto soprattutto sugli anni e sulle barriere che creano tra le persone; allora mi pareva proprio che fossero loro a creare questi muri, ora sono più propenso a credere che siano le persone che, forse per comodità, si costruiscono questi steccati che separano il sentire, le esperienze, il pensiero e il mondo delle generazioni. Poi un giorno, a mensa, incrociai quasi per caso lo sguardo di lei che, si può dire, non avessi più visto, ci fissammo per un tempo interminabile negli occhi, poi mi fece un largo sorriso e questo bastò per rimettermi di buon umore e non pensare più ai muri ed agli steccati, ma non fu più come prima... Inoltre dopo qualche giorno lei se ne andò per sempre. Non seppi mai il motivo della sua partenza anche perché dopo poco fui trasferito in infermeria: l'effetto, anche terapeutico, di Pupa era finito.
Ma dopo questa digressione sulla mia prima "donna" torniamo all'Agfacolor e passiamo ad esaminare, con l'aiuto della lente di ingrandimento, il gruppetto di bambini che si trova in un lembo di pineta vicino alla strada costiera. Dalla luce del sole che arriva da dietro si direbbe pomeriggio, tardo a giudicare dalle ombre lunghe dei bambini sul terreno della pineta. Questo é formato da sabbia frammista ad aghi di pino e pigne secche. I bimbi avranno dai sette ai dieci anni e sono in uniforme da festa: la visita dei genitori. Se non ci fosse la foto a documentare la mia presenza non avrei mai ricordato di essere arrivato in piedi a quella fatidica data! Infatti le visite dei familiari, forse per evitare torrenti di lacrime o forse per corroborare lo spirito, non potevano avvenire prima della seconda settimana di permanenza in colonia, ed io in genere molto prima mi trovavo in infermeria o addirittura rispedito a casa. Dunque la divisa festiva era costituita da una camicetta azzurra, ma questo colore ricordo, ma lo si nota anche con la lente, era ottenuto da piccoli quadratini bianchi e blu, aperta sul davanti con un paio di bottoni, le maniche non si vedono, sembrano quasi strappate, ad alcuni spunta da sotto la maglietta della salute, altri mostrano orgogliosi i miseri bicipiti. Pantaloncini corti color kaki, per lo più spiegazzati e a lunghezza variabile, e l'immancabile berrettino bianco alla marinara che viene indossato nei modi più strani dai bambini, completano la fornitura ufficiale. L'abbigliamento feriale vedeva sostituita la camicetta azzurra con altre a righe sottili orizzontali dei colori più vari ed inconciliabili, le maniche erano corte ma visibili. Altri indumenti li portavamo da casa segnati tutti da un etichetta con un numero rosso che individuava il proprietario del capo in caso di smarrimento o peggio. Noto con piacere che due bambini sono senza berretto ed uno sono io che sfoggio, allora, una folta chioma castano chiara: questo era uno dei massimi segni di anticonformismo concessi. L'altro ribelle ha un viso che non mi ricorda nulla. Peccato non averlo frequentato ed avere stretto una più duratura amicizia, ha uno sguardo sveglio e certamente doveva essere un bimbo in gamba. Cosa ancora più strana, abbiamo la stessa posa da parata: braccia conserte, petto in fuori e fronte alta. Gli altri invece sono tutti imberrettati e, o ridono come dei cretini o hanno lo sguardo attonito di chi sa che sta per essere fotografato; uno addirittura improvvisa un gesto alla Charlot, un altro non sa dove mettere le mani e allora pensa bene di stringere con forza a pugno il bordo dei pantaloni come si trattasse dell'ultimo appiglio prima del baratro. I sandali sono personali e quindi i più diversi: quelli di plastica con due strisce incrociate vanno per la maggiore, ma anche quelli "alla topolino" sono diffusi, mentre sono assenti quelli col pirozzo tra l'alluce e le altre dita perché riservati allora alle femmine. Nessuno é scalzo, sarebbe stato considerato un eversivo dagli adulti, e poi siamo in pineta e gli aghi di pino non si addicono alle palme dei piedi dei bambini. A ridicolizzare però la mia posa, un paio di occhiali alla Woody Allen messi per l'occasione: infatti gli occhiali li portavo più spesso in tasca che sul naso. Allora l'occhiale era ancora considerato una protesi e non un oggetto di culto, infatti solo tre sono i quattrocchi della foto e dall'aria molto triste, uno per giunta con la benda secondo una rude terapia allora in auge.
Dopo alcuni giri con la lente sento che qualcosa non va, c'é un qualche dettaglio, un particolare che non quadra. Da un confronto tra berrettini bianchi e gambe magre e storte mi accorgo finalmente che il conto non torna: ci sono due gambe in più! In seguito ad attenta ricerca trovo il furbetto che si nasconde dietro Topa; é impossibile riconoscerlo, si vede solo il berretto bianco, che si confonde con quello degli altri amici ed un occhio. Troppo poco per individuarlo, ma abbastanza per non avere dubbi sull'aspetto goliardico del capolino. Comunque non é il solo che non sono in grado di riconoscere, molte facce non mi ricordano il nome, altre neppure una circostanza. Si trattava forse di una squadra ben affiatata, o meglio di bambini accorsi per caso al clic del fotografo? A proposito chi era costui? Mah, certamente mio padre in una delle sue fugaci apparizioni segnate da un fiume di lacrime; le sue visite mi mettevano così di cattivo umore che preferivo quasi non venisse, ma non trovavo il coraggio di dirlo e forse anche per lui era lo stesso. Molte altre cose tra me e lui sono rimaste inespresse...
Saranno forse solo sette od otto i visi a cui sono in grado di associare un nome, altri mi ricordano solo qualche episodio, altri nulla. Ma é proprio il caso di trovare un nome proprio a questi personaggi, molti dei quali non ho più rivisto e che hanno lasciato dentro di me solo un fugace ricordo? Ad esempio ricordo un bambino appiccicoso che mi si attaccava alle costole per tutto l'arco della giornata, faceva tutto ciò che facevo, voleva conoscere il significato di ogni mia azione e parola, non aveva mai una proposta ed accettava le mie senza entusiasmo, ma senza nessuna esitazione. Ecco, il bambino appiccicoso é il bambino appiccicoso: la quintessenza della sciatteria e della mediocrità, che ti si attacca addosso sulla pelle come il sale marino e che, per una persona ben educata, é difficilissimo scacciare. Di quel bimbo appiccicoso ricordo ben poco, di certo fu il primo che conobbi, ma non certo l'ultimo, anzi si potrebbe dire che trovate bambini appiccicosi e non riuscire a staccarmene é una delle costanti della mia vita: in seguito ho avuto a che fare con diversi ragazzi e ragazze appiccicose, uomini e donne appiccicosi. Altro esempio, il bambino che puzza. Se ricordo bene erano due, due fratelli, che si portavano addosso un insopportabile puzzo fin dai tempi dell'asilo quando li conobbi, dovuto a non so quale motivo o maledizione. Era un odore penetrante e persistente che per fortuna aveva un raggio d'azione limitato. Per questo era facile vedere i due fratelli spesso soli e quando camminavano nel cortile tutti si scansavano come se si trattasse di alte personalità. C'era poi il bambino che vuole scappare, sempre triste ed imbronciato, anche nella foto, pronto a cogliere ogni pretesto per essere scontento. Certo che di motivi per esserlo ne aveva da vendere, visto che il trattamento che ci veniva riservato era più simile a quello carcerario che a quello di una villeggiatura. Non perdeva occasione per raccontarti l'ultimo progetto di fuga, lasciando indietro qualche importante dettaglio che confessava solo a chi giurava di aderire all'iniziativa. Non ho difficoltà ad ammettere che questo tale mi intrigava molto e che una volta fui molto vicino al giuramento, ma poi non ne ebbi bisogno, la mia via di fuga era la più sicura: la malattia. Credo di ricordare che un anno questo bambino riuscì nel suo intento, ma fu rispreso poche ore più tardi, dopo affannose ricerche nelle località limitrofi ed il suo ritorno non fu come quello del figliol prodigo...
Mi é già sfuggito un soprannome, Topa e quindi, aboliti i nomi, almeno questi sono concessi, anche perché, meglio dei nomi propri, sono assai più indicati a caratterizzare l'indole del personaggio. In questa foto Topa non fa assolutamente comprendere a chi guarda il significato del soprannome, mantiene infatti la bocca ben sigillata in un sorriso forzato, ma pur sempre maramaldo. Se le fotografie potessero parlare vedremmo spuntare da quella bocca due zapponi bianchi e sporgenti, che assieme alle orecchie leggermente a sventola farebbero riconoscere a chiunque nel gruppetto il viso di Topa.
Due bambini appoggiano le loro spalle sulle mie in atteggiamento da grandi amiconi, giustificati anche dalla mia rigida posa statuaria. Si tratta di due individui che allora frequentavo già da anni e che poi invece ho perso di vista. Li chiameremo i bambini amiconi. Erano entrambi dei grandi organizzatori di giochi, sfide e scherzi. In colonia i giochi venivano praticati prevalentemente in spiaggia e comprendevano corse, lotta, costruzione di castelli, piste di sabbia per le palline, e altri giochi più o meno proibiti... In realtà esisteva anche una sala giochi ben fornita all'ultimo piano della colonia, ma secondo i dettami pedagogici di allora doveva restare rigorosamente chiusa, salvo durante qualche visita importante: si sa, i bambini rompono sempre i giocattoli! Erano utilizzabili solo alcuni tavoli da calcetto, avanzi da bar, messi sotto un porticato. Questi tavoli, pur pesanti, durante le sfide fra noi bambini saltellavano come gocce d'acqua su una piastra rovente sotto le sferzate, le mazzate, i frulli ed i ganci dei giocatori. Il calcetto, come tutti sanno, abbisogna di una coppia di giocatori terribilmente affiatata: uno sta in difesa e manovra terzini e portiere, l'altro controlla centrocampo e attacco. Affinché la compagine non sia solo la somma di quattro manopole con gli undici omini infilzati come in uno spiedo, occorre che tra i compari si parli la stessa lingua e questa lingua é fatta si di parole, gridate, ma soprattutto di gomitate, gesti ermetici con i birilli ed occhiate furtive. Uno degli amiconi si era conquistato la fama di migliore difensore della colonia: i suoi ganci erano di una potenza micidiale e rintronavano nel buco della porta come uno scoppio di fucile ed erano carichi di effetto tanto che spesso la pallina scappava dal verde e lercio rettangolo di gioco per schizzare impazzita nella sala e dietro un seguito di piccoli raccattapalle svelti come gatti a contendersi l'ambito trofeo. Non so come, forse eravamo veramente amici, una volta in un regolare torneo feci coppia con questo tipo: lui in porta ed io all'attacco. Anche allora era in auge il modulo del catenaccio ed imperava il saggio motto "primo non prenderle", quindi era logico che il più scarso fosse mandato all'attacco, poiché un goal mancato non ne valeva uno preso. Ci comportammo bene fino alle semifinali, anche perché faceva tutto il mio amico, io mi limitavo a mettere tutti i miei omini in orizzontale quando effettuava i suoi proverbiali ganci e a fare un grande frullaticcio quando la palla capitava a centrocampo; il goal o veniva per caso o non veniva e basta. Ma arrivarono le semifinali, le quattro migliori coppie si affrontavano in sfide secche: chi vinceva in finale e chi perdeva ...ciao. Questi incontri si svolgevano con largo seguito di pubblico che vociava ed incitava in modo assordante; inizialmente gran parte di loro era con noi e scoprii che sentire urlare il proprio nome da una moltitudine di voci fa un certo effetto. I nostri avversari erano due tipi da galera che parlavano come due scaricatori di porto condendo il tutto con abbondanti "scataracci" per lubrificare le manopole: il portiere era un ciccione con un grosso capoccione che nelle fasi di gioco più concitate ciondolava come il batocchio di una campana; l'altro piccolo e magro ma con una tigna che lo alzava quanto bastava per permettergli di vedere la palla. Le cose, dopo un inizio promettente, cominciarono a mettersi male e continuarono peggio. Il pubblico era passato dall'altra parte e ci cominciavano ad arrivare bordate di fischi. Quando stavamo per rischiare il cappotto il mio compagno mi prese le manopole dalle mani e mi spinse in porta. Era il massimo della umiliazione, significava infatti: "ma guarda un po', devo fare tutto io!" Con il centravanti segnò subito un goal che ci permise di continuare la partita e di tornare alla formazione tipo. Ma le cose non migliorarono, ed allora cominciammo un valzer difesa/attacco che ebbe il solo effetto di dare ancor più fiducia ai nostri avversari che infatti ci mangiarono in un boccone. Un boato accolse la vittoria dei due lestofanti che festeggiarono a modo loro con un rutto incrociato, poi il ciccione abbracciò il piccoletto sollevandolo di forza da terra e facendolo roteare sulla giostra che aveva come fulcro una grossa pancia tonda che sbucava dalla maglietta arrotolata e dai calzoncini cadenti. Non ricordo quello che successe poi, certamente qualcosa tra la squadra perdente si ruppe; ebbi l'impressione di venire sballottato dalla marea ed il fatto strano era che non mi importava nulla di dove andassi a finire. Trascorsi un periodo fuori dal mondo e dal tempo con un grande senso di colpa che mi faceva apparire stupido e ridicolo. Poi il megafono strillò il mio nome: c'era ancora da giocare la partita per il terzo posto. Io ed il mio compare, che ci eravamo persi di vista, arrivammo al biliardino da parti opposte come due sbandati e, senza neppure guardarci negli occhi per concordare una tattica di gioco, cominciammo a pestare la nostra rabbia sulle manopole. Ma ben presto mi accorsi che la rabbia la sfogavo solo io, il mio amico giocava con una calma olimpica e con una sufficienza che non era da lui. Cominciai a frullare e a tirare siluri come un matto cercando di non fare arrivare mai la palla al compagno e subito uno, due, tre goal in rapida successione. L'altro effettuò un paio di papere per rimettere la partita in discussione, insomma cominciò a giocarmi contro. Per farla breve vincemmo o meglio vinsi il terzo posto. Questo non voglia sembrare falsa modestia, infatti non so ancora spiegarmi dove trovassi tutti quei siluri, sta di fatto che la palla é rotonda e quando gira per il verso giusto ogni palo é un goal ed ogni deviazione é a tuo favore. Ah, se solo questa performance fosse capitata la gara precedente! Allora invece tutto girava storto, ogni traversa era palla nella nostra difesa e ogni rimpallo un goal per gli avversari. Allora imparai che la fortuna per essere veramente tale deve arriderti al momento giusto, altrimenti non fa che aumentare la beffa. Tentai una timida esultanza, ma il mio amico mi ghiacciò subito dicendo: " Ma che fai stupido, festeggi una sconfitta?". Fu il momento buono per capire che esistono due tipi di contendenti: quelli che vogliono sempre e solo vincere e quelli che si accontentano di quello che hanno ottenuto, valutando le singole situazioni e traendo insegnamenti per migliorare, in ogni caso contenti di aver partecipato. Mi resi conto di appartenere a questa seconda schiatta. In certe cose non si può scegliere, ognuno col tempo si scopre per quello che é, con scarse possibilità di mutare. Gli altri giochi avevano come teatro la spiaggia o la pineta che si ergeva a ridosso della prima e che fungeva da filtro visivo e olfattivo tra il mare e la terra. Tale pineta infatti era talmente fitta che intravedere il blu ondeggiante dalla strada era praticamente impossibile se non in corrispondenza delle piccole stradine che la tagliavano perpendicolarmente alla spiaggia. Anche l'odore salmastro del mare era coperto dall'intenso profumo resinoso dei pini. I giochi in pineta erano alquanto impediti dalla presenza dei pini i cui tronchi rossastri e rugosi erano troppo piccoli come riparo per il nascondino e troppo grossi per sbatterci la testa durante una corsa. Venivano quindi privilegiati i giochi di società, i canti e l'ozio. Mi pareva stranissimo che esistesse una pineta così vicino al mare; questi alberi, chissà perché, li associavo con la montagna e in nessun'altra spiaggia mi era capitato di vedere una cosa del genere, non certo a Rimini dove andavo con i genitori o a Fano dove mi portava la nonna. Erano due ambienti opposti ed incompatibili: uno solare, aperto, caldo e secco, l'altro ombroso, angusto e umido. Possono esistere sostanze più diverse della sabbia e degli aghi di pino? Una fine, tonda, calda, inodore, incolore, l'altra allungata, fredda, verde, profumata. Eppure allora imparai che potevano coesistere. Solo all'uscita dai tunnel che tagliavano la pineta finalmente si vedeva e si respirava il mare.
Altro a noi bambini non era consentito. Il mare era una presenza discreta, un accessorio non indispensabile per poter chiamare la colonia "marina". Non so se per volere della seriosa direttrice o per una opinione diffusa tra gli adulti, ma il mare ci veniva allora presentato come una forza occulta e misteriosa dalla quale era bene che un bimbo rimanesse alla larga. Forse anche la natura montanara dei sammarinesi può contribuire ad alimentare questa visione perigliosa del mare. Mi sembra di ricordare che nei miei quattro o cinque soggiorni in colonia marina solo quattro o cinque volte fu consentito a quella marmaglia di fare il bagno; infatti molte erano le condizioni che dovevano essere contemporaneamente soddisfatte per dare il via libera all'assalto: neppure un segno di nubi all'orizzonte, assenza assoluta anche di una bava di vento, caldo opprimente dell'aria, acqua calda come quella di una vasca da bagno, ed inoltre assolutamente calma e piatta, la digestione già completata, il parere positivo del bagnino e della direttrice. Il segnale convenuto per il nulla osta era una bandierina triangolare color blu, colore che molto più frequentemente era sostituito dal rosso pericolo. In ogni caso la permanenza in acqua durava appena il tempo di fare penetrare in ogni orifizio del corpo una certa quantità di acqua salata che poi lasciava il segno per un tempo assai più lungo. Parlare di nuotare era inutile: la paura frenava i più prudenti, l'ignoranza del gesto i più audaci; era solo un gran sguazzare di gambette, braccine, ciambelline e quant'altro fosse utile a produrre schizzi. Un altro impedimento era dovuto alla superficie disponibile, infatti il mare era stato trasformato in un recinto, con tanto di boe, galleggianti, corde e bandierine, all'interno del quale la densità dei bagnanti era altissima e l'agitazione dell'acqua pure, mentre all'esterno di questo quadratino era una calma assoluta disturbata solo da qualche liquefatta visione di barchette all'orizzonte. Ad ogni evenienza era pronto un moscone di salvataggio lasciato a mezzariva e che non si capiva come avrebbe fatto, in caso di reale bisogno, a farsi largo tra cosi tanti bambini epilettici che in quei pochi minuti scaricavano tutta la loro energia repressa, senza causare maggiori danni che benefici. Eppure la preparazione prima di entrare in acqua era meticolosa, ma forse più adatta al preparativo di una gita campestre: corsetta, esercizi ginnici, inspirare-espirare, permanenza all'ombra per alcuni minuti per mitigare lo sbalzo termico corporeo, indossare scarpini, ciambelle, mollette, ecc. Anche il dopo bagno era regolato da ferree leggi: era assolutamente proibito buttarsi sulla sabbia o ficcarsi all'ombra, era altresì assolutamente sconsigliato stare fermi o asciugarsi con i teli da mare, ogni infrazione era prontamente segnalata dalle attenti sorveglianti e dal bagnino, che in questi frangenti tenevano gli occhi più spalancati del solito.
Ma usualmente il mare restava per noi bimbi uno sfondo blu ai giochi che avvenivano sulla spiaggia. Questa era di un'arena silicea finissima che si infilava in ogni piega del corpo, al mattino fresca e umida, ma che durante il giorno si scaldava fino a divenire rovente e quasi bianca. Il bagnino aveva un bel da fare per mantenerla pulita da tutto quello che portava il mare e quello che scaricavano i bimbi.
Il bagnino era un uomo non alto, ma muscoloso, di un'età indefinibile, taciturno e più nero di un negro. Sotto il sole i suoi muscoli lucidi e bronzei si gonfiavano e sgonfiavano seguendo il ritmo del lavoro, che era tra i più umili, ma che a molti di noi ricordava le epiche fatiche d'Ercole viste al cinema. Quest'uomo era tanto poco loquace, che non mi rammento che voce avesse; per noi bimbi poteva essere anche muto tanto era lontano il suo mondo dal nostro; a nessuno sarebbe venuto in mente di attaccare discorso con lui. Ricordo invece come la direttrice comandasse a bacchetta, chiamandolo quando lo perdeva di vista o richiamandolo quando si attardava a parlare con le signorine, questo fusto che avrebbe potuto ribaltarla con un sol buffetto, e come tutto questo mi pareva molto strano...
Si potrebbe pensare che allora il mare fosse soprattutto inteso dalle educatrici come il luogo per i bagni di sole, le cure elioterapiche come si diceva allora. Certo, ma per i bambini questo doveva avvenire con molta moderazione. Erano state approntate delle tende di juta sorrette da esili strutture metalliche, tese orizzontalmente da sottili funi e carrucole d'acciaio, sotto le quali veniva portato il gregge nelle ore di maggiore insolazione. Per uscire dall'ombra bisognava aspettare un fischio della direttrice; durante le passeggiate mattutine il berrettino alla marinara doveva essere sempre ben calzato in testa e prima di togliersi la maglietta si doveva aspettare un ordine superiore. Avveniva poi che in assenza della direttrice qualche altra signorina anziana prendesse il comando delle operazioni di spiaggia con valutazioni non sempre conformi alle precedenti e allora poteva capitare che divenisse assolutamente vietato stare all'ombra anche nelle ore di maggiore afa. Ricordo delle bambine grassottelle, amiche di mia sorella, che sotto il sol leone si scioglievano trasudando come spugne mentre la loro faccia percorreva tutta la scala cromatica dal rosa al paonazzo. Certo, c'erano anche le femminucce in questa colonia marina ed anche nelle scuole della piccola repubblica del resto le classi erano miste già da tempo. Ovviamente però qui esisteva una separazione invisibile quanto efficace. Tutto era doppio: le squadre, le camere, i tavoli da pranzo, i servizi, i giochi, i tendoni in spiaggia ed i turni del bagno. Solo le divise feriali erano stranamente simili, ma tanto era praticamente impossibile confondere i due sessi così suddivisi in ogni attività della giornata, a meno che un errore del genere fosse avvenuto nella selezione iniziale, allora non so se sarebbe stato scoperto tanto facilmente. Infatti qui non esistevano tanto i singoli bambini o bambine, ma le squadre di maschi e le squadre di femmine che dovevano convivere assieme ma senza mischiarsi. Le femmine erano quindi, per la maggior parte di noi maschi, ancora più estranee e lontane dello sfondo blu del mare. Qualche anno più tardi, nei soggiorni nella colonia alpina di Rocca Pietore gestita da preti, l'assenza delle femmine scoprii essere assai più avvincente ed intrigante della loro presenza: era come avere una scusa sacrosanta alla nostra ignoranza in materia e si potevano inoltre raccontare le avventure più improbabili..., ma forse eravamo solo un poco più cresciuti.
Ho già accennato alle passeggiate mattutine in riva al mare che dovevano servire per fare il pieno di aria intrisa di iodio e nello stesso tempo per irrobustire le nostre esili gambettine. L'itinerario era deciso dalle sorveglianti, comunque la scelta a disposizione era minima: a nord verso Cervia o a sud verso Cesenatico. Ma questa minima differenza, se per la maggior parte dei gitanti era assolutamente inapprezzabile, per alcuni era di fondamentale importanza, soprattutto per le femmine, come mi spiegò mia sorella qualche tempo dopo. Infatti la nostra non era la sola colonia presente in quei lidi, tutto il litorale adriatico da Ravenna a Cattolica, e forse oltre, era tutto un susseguirsi di istituzioni coloniali gestite dai più diversi enti: statali, parastatali, provinciali, aziendali, religiosi, filantropici, ecc. Erano quasi tutte fiorite nel ventennio fascista quando l'italiano improvvisamente scoprì di aver perso confidenza con il mare e di avere dei figli gracili, bassi e per giunta con i capelli scuri che non reggevano al confronto, nelle numerose parate di regime, con l'alleato teutonico che poteva schierare truppe compatte di rampolli atletici, sani e biondi. La Romagna, patria del Grande Capo, era naturalmente deputata a scenario di questa nobile opera rieducatrice. Il ventennio finì e l'italiano scoprì, ancora una volta all'improvviso, che alla gioventù di allora, oltre la scuola, non era stata riservata nessun'altra attenzione che non fosse la colonia estiva del Duce ed allora la conservò preoccupandosi solo di cambiarne i nomi bellicosi in più rassicuranti sigle da settimana enigmistica e continuò a mandarvi i suoi rampolli perché crescessero sani e robusti ed imparassero i primi rudimenti della disciplina. Il mare d'altronde era per molte famiglie avvicinabile solo con questo stratagemma, il boom del turismo balneare era ancora lontano e il mare un sogno esotico di pochi e si doveva aspettare ancora qualche anno per il baby boom...
Alla fine degli anni sessanta, quando frequentai quei lidi, tali strutture collettive erano già frammiste ad insediamenti turistici, ruspanti ma promettenti, che col tempo le avrebbero soffocate e trasformate in lugubri cimeli modernisti o fagocitate nella formula della "pensione completa".
La parentesi aperta é troppo lunga ed ha fatto perdere di vista quello che doveva essere di fondamentale importanza soprattutto per le femmine: il fatto che esistessero altre colonie simili alla nostra. Queste colonie avevano però dei bambini che le femmine chiamavano ragazzi e che, a giudicare dai loro discorsi, erano assai meglio di noi. Anche in queste colonie c'era l'abitudine di fare lunghe passeggiate mattutine lungo la riva del mare e così spesso si incrociavano i diversi convogli di gitanti. Ricordo ancora un sciocco ritornello che le truppe si scambiavano incontrandosi; una diceva: "Di che colonia siete?" e l'altra prontamente: "Della fame e della sete!". In questo consistevano praticamente gli scambi culturali tra le diverse colonie, o meglio questo era quello che ai più sembrava. In realtà, e veniamo al dunque, esisteva anche un altra forma di scambio: le furtive occhiate che le femmine scambiavano con i ragazzi del plotone nemico. Molte femminucce infatti durante questi incroci, rapidamente adocchiavano il ragazzo giusto e lo fissavano per qualche istante negli occhi; da questi sguardi traevano poi insospettate sentenze che si scambiavano tra loro ridendo come galline. L'unica preoccupazione di noi ragazzi invece era quella di apparire più forti e robusti del nemico e per questo gonfiavamo il torace e camminavamo per alcuni metri a testa alta senza alcun timore di calpestare qualche granchio, riccio o conchiglia. Si potrebbe sottolineare che le altre colonie non erano miste e quindi, anche volendo, era difficile che si innescasse anche nei nostri confronti un fenomeno simile con le ragazze del nemico. Ma quando incontravamo un gruppo di sole femmine, perché era un turno femminile, non succedeva nulla o quasi e quindi ...é una scusa che non regge! Era dunque comprensibile, che una volta adocchiato il ragazzo giusto, la femminuccia aveva tutto l'interesse a incontrarlo di nuovo, per valutare, sempre dallo sguardo, se c'erano o potevano esserci altri impensabili sviluppi della vicenda sentimentale, ed allora il lettore può finalmente capire come non per tutti il nord fosse uguale al sud.
Un'altra informazione che si scambiavano, per la verità, i bambini delle varie colonie era la data di partenza; tutti erano molto interessati a questo evento ed il gruppo che partiva prima copriva con un'ondata di sghignazzi e gestacci quello che restava, che incassava in silenzio.
Al ritorno da queste camminate sull'arenile (solo certe volte ci veniva concesso di percorrere il bagnasciuga), le caviglie erano assai doloranti e la fiacca faceva crollare i più a terra. Dopo qualche minuto di pausa però iniziavano i giochi di spiaggia che avevano necessariamente come ingrediente essenziale la sabbia, una sabbia formata da piccolissimi sassolini variopinti e luccicanti se visti da vicino, ma che diventava tutta gialla e opaca se vista da una distanza normale. Dopo alcuni giorni anche i nuovi venuti o i più sprovveduti scoprivano quante cose si potevano fare con quella sabbia: cacciarsela negli occhi, costruire castelli, fare buche profonde fino a raggiungere l'acqua, farne degli stampini, liquefarla nel secchiello e usarla per eseguire "garagoli", mummificarsi in bagni di sabbia, ecc. Ma la cosa più meravigliosa per noi maschietti era la costruzione di mirabolanti piste per la corsa delle palline. Queste palline credo che oggi siano scomparse, come certe specie animali; allora erano comuni e bastava dire palline per capire di cosa si trattasse senza creare equivoci. Erano delle sfere di plastica ottenute dalla giunzione di due semisfere, una opaca colorata con colori sgargianti, l'altra trasparente che subito si rigava ad ogni minino uso, verso questo lato guardava un cartoncino su cui era riportata la figura a mezzobusto di un ciclista chino sulla bici, che molte volte si intuiva soltanto. Attorno, a mò di corona d'alloro, era stampigliato il cognome del ciclista. Erano dei cognomi stranissimi per chi come noi non seguiva il Giro e che in molti strorpiavano, mentre altri li avvolgevano in un alone leggendario: Aimar, Anquetil, Balmamion, Bitossi, Gimondi, Merckx, Motta, Pambianco, Zandegù per ricordarne solo alcuni. Il solo ripeterli faceva pensare a gesta epiche o a formule magiche. Queste palline venivano comprate, assieme ad altre cianfrusaglie, da alcuni venditori ambulanti che solcavano la spiaggia su un triciclo stracarico di roba. Ricordo bene la figura ciondolante, come di veliero, che si profilava da lontano, a volte distorta dai vapori della calura, che si ingrandiva man mano che si avvicinava chiarendo così i contorni informi ed il contenuto del carico. Tutti noi aspettavamo con impazienza questo momento, ma dovevamo aspettare il permesso della direttrice per l'arrembaggio del carrozzone, che spesso era vietato e che comunque avveniva a piccole squadre, secondo una tattica a noi incomprensibile. Accompagnati dalla signorina la squadra avvicinava, senza la minima soggezione, questo immenso carro pieno di tutto e subito iniziava un fitto vociare tra i bimbi ed il venditore con la mediazione della signorina che aiutava nelle transazioni, nel riconoscere la moneta e nel frenare gli eccessivi entusiasmi dei pupi per un qualsiasi "baciaccolo". Alcune merci erano vietate, come le fionde e le armi in genere, altre erano limitate e solo i primi avevano l'opportunità di scelta, ma l'ambulante prendeva nota e prometteva un prossimo carico. Ma ciò significava aspettare anche settimane perché non sempre era concesso dal capitano l'arrembaggio per non dilapidare in qualche giorno il nostro piccolo tesoro lasciatoci dai genitori. Le palline erano in un grosso sacco di cellophane annodato al manubrio del triciclo, si compravano a numero e non era concesso scegliere per non perdere tempo: chi capitava capitava. Del resto se si acquistavano dei doppioni si poteva subito scambiarli con i compagni nel fiorente mercato nero parallelo. In questo le quotazioni risentivano sia della rarità del pezzo, che delle performance recenti del ciclista o meglio sarebbe dire del ciccatore, ossia del giocatore che in realtà era l'artefice del successo con una serie sapiente di ciccate. Ciccare era un'arte ed esistevano diverse scuole: chi lo faceva da seduto, chi accovacciato, chi steso come in trincea. Il modo di atteggiare la mano era poi personalissimo e continuamente oggetto di miglioramenti, i sistemi di mira i più fantasiosi, le tattiche di gara rispecchiavano il carattere dei giocatori, ma una parte non indifferente delle attenzioni era concessa alla pallina ed al ciclista, come se veramente si fosse trattato di una gara ciclistica sulla sabbia friabile. Gimondi valeva due Bitossi, lo stesso Gimondi con semisfera rosa, un colore molto di moda, aveva un valore inestimabile, Balmamion aveva lo stesso valore di un copeco contro un dollaro, Zandegù subiva alti a bassi come una azione in borsa e ogni tanto spuntava un nuovo nome che nessuno conosceva, ma che trovava l'acquirente per semplice mania collezionistica. La gara aveva delle regole chiare quanto curiose che tutti però conoscevano per cui barare era difficile anche perché c'era sempre qualcuno del pubblico che interveniva in difesa dell'ultimo. Innanzitutto si doveva ogni volta tracciare la pista che sotto il sole cocente non resisteva che poche ore senza sgretolarsi; per questo esistevano degli specialisti ed io ero tra questi. La sabbia imbevuta d'acqua salata sotto le sapienti mani dei costruttori e dei loro aiutanti formava rettilinei giganteschi e strettoie, buche, paraboliche, sponde e, con l'aiuto di qualche bastoncino, anche ponti e cavalcavia. Fatta la pista, gli aiutanti si trasformavano in giocatori, si decideva il numero di giri da percorrere e l'ordine di partenza. Ognuno aveva diritto ad un solo colpo per volta, chi andava più lontano senza uscire dalla pista era in testa, se usciva rimetteva la pallina dove essa era uscita e questo dava luogo a veloci discussioni in cui ogni millimetro rubato era prezioso. Chi andava in buca saltava alcuni turni di tiro, chi era doppiato, massimo della vergogna, doveva ritirarsi. Ogni tanto qualche cretino calpestava la pista e veniva debitamente steso a terra senza complimenti, ripetutamente si dovevano rabberciare le sponde sfondate dalla troppa irruenza dei ciclisti. C'era un bambino che vinceva spesso e che giocava tenendo la lingua di fuori di traverso tra le labbra forse per saggiare il vento o per una maggiore concentrazione o per una strana forma di mira; utilizzava la tecnica del tiro steso accavallando, non si sa perché, le dita di un piede. Ma per tutti gli altri era più facile riconoscere il valore del Gimondi rosa piuttosto dell'abilità di Palino. Io non ero un grande ciclista e d'altra parte non ebbi l'opportunità di diventarlo mai anche perché presto finivano per me i giochi da spiaggia ed iniziavano quelli in infermeria.
Non ho saputo mai spiegarmi perché regolarmente, dopo qualche settimana mi ammalavo, di uno strano male che appena rispedito a casa passava. La mamma diceva che era la nostalgia di casa, forse le piaceva pensare così e anche a me sarebbe piaciuto, era molto romantico, ma ero profondamente convinto che non fosse così. Del resto anche lei ci mise molto a trarre le debite conclusioni della sua teoria e per altrettanti anni mi spedì alla colonia montana dove passai, per altro, delle vacanze stupende senza mai una linea di febbre. Fu allora che si fece largo nella mia mente la teoria climatica: a Pinarella mi ammalavo perché il clima mi era insopportabile per il caldo della spiaggia che si sommava all'umidità della pineta in una miscela esplosiva che mi faceva ritrovare orizzontale in un letto dell'infermeria. Ora invece mi piace pensare che le ragioni dei miei malanni possano essere ricercate nell'insopportabile costrizione di fare questo o quello, seguire una certa regola o comandamento senza una minima giustificazione. Contro una opinione diffusa che ritiene il bambino incapace di capire certe sottigliezze, credo che invece egli abbia questa facoltà fin dall'età più acerba; in ogni caso sono sicuro che io, allora, sarei stato capace di comprendere una qualsiasi spiegazione sia ragionevole che infarcita di menzogne. Comunque la si voglia mettere una cosa é certa, che mi ammalavo puntualmente e non si trattava di malattia immaginaria, ma confermata da febbri da cavallo e da diversi medici.
L'infermeria era situata all'ultimo piano dell'edificio, mi pare che il tutto si limitava a in tre piccole stanze: due per i degenti, maschi e femmine, ed una per il personale di servizio, le medicazioni o altre operazioni del genere; vicino doveva esserci la camera da letto dell'infermiera. Come esattamente succedeva che mi ritrovassi in quelle stanze non ricordo; a volte questi ricoveri erano preceduti da passaggi ripetuti al pronto soccorso che si trovava al piano terra, dove l'infermiera, sorella della direttrice, da certi armadietti metallici e vetrati, tirava fuori la medicina adatta ad ogni malanno. Era logico che, essendo un recidivo, fossi tenuto in stretta osservazione prima di passare di sopra e si cercasse di risolvere il problema con sciroppi e pillole. Ma non c'era nulla da fare contro quella fiacca incipiente che prendeva il controllo del mio corpo gradatamente, ma inesorabilmente; facevo fatica a respirare e la sudorazione procedeva a sbalzi alternando caldoni a brividi di freddo, ma soprattutto era la consapevolezza che ogni movimento mi diventava via via più difficile che mi mandava il morale per terra. E senza morale il malato non guarisce, e sinceramente, isolato in quella stanza quasi sempre da solo, non avevo nessun motivo per essere ottimista e di buon umore. Le pazienti cure dell'infermiera mi davano solo un leggero conforto ed ogni sua venuta era un avvenimento: l'alzata delle tapparelle, la misura della temperatura corporea, la somministrazione dei farmaci, il riempimento della tazzona di tè sul comodino... Quest'ultima è la cosa che ricordo in ogni dettaglio e che forse può spiegare la mia passione per questa bevanda ancora oggi. Avevo una grossa tazza semisferica di coccio smaltato bianco con un fregio a bordatura dell'orlo e senza manico cosicché bere diventava difficile ma il gesto era solenne, a due mani. Il tè arrivava da una grossa teiera metallica con il manico di legno o di plastica nera, tenuta per mano con una presina di panno. Appena versata la bevanda nella ciotola, un fumo denso e profumato si riversava nella stanza creando fantastiche volute sempre diverse, il liquido, prima chiaro, diventava sempre più scuro, ma poi si rischiarava con l'aggiunta di una fetta di limone che contribuiva a mutare anche l'aroma nell'aria. Qualche cucchiaio di zucchero si scioglieva senza necessità di mescolare, diversi minuti occorrevano per raffreddare il liquido e renderlo bevibile in quel clima caldo e umido. Quasi certamente non era la prima volta che bevevo tè, ma é la prima volta che ne conservo il ricordo, forse perché allora associavo a questa cosa un ruolo terapeutico quasi magico ed anche per questo tale bevanda non aveva nulla in comune con la broda che veniva data a colazione nella sala al piano terreno, tranne il nome. Ricordo un anno in cui la cameretta dell'infermeria era insolitamente trafficata. Arrivai che già era occupata da un bambino più grande di me ed assai robusto che chiamavano Cioffo, che mi accolse subito con un sorriso e qualche battuta di spirito e non dava proprio l'impressione di star male. Ma presto mi addormentai vinto dall'enigmatica fiacca. La mattina, al mio risveglio, trovai nel terzo letto anche Topa che durante la notte doveva aver avuto dei problemi ed altri ancora ne doveva aver creato alle sorveglianti, tutti si meravigliavano che non avessi sentito il trambusto che era successo. Dopo poco tempo però tutti gli ammalati stavano assai meglio ed allora cominciarono le chiacchiere e gli scherzi. Cioffo era un formidabile raccontatore di barzellette, dalla sua bocca anche la battuta più stupida e scontata diventava irresistibile e coinvolgeva non solo noi bambini ma anche l'infermiera o le altre inservienti che si trovavano a passare per un qualche motivo. Non si può nascondere che egli avesse nei miei confronti, e soprattutto di Topa che era il più piccolo, un atteggiamento da fratello maggiore, da bambino vissuto, ma senza divenire mai antipatico. Un giorno Cioffo informò noi mocciosi che la sera precedente c'era stata un'epica partita di calcio allo stadio Azteca di Città del Mexico tra l'Italia e la Germania; recitò le formazioni aiutandosi con le figurine che uscivano da ogni piega del lenzuolo, fece un'accurata sintesi delle fasi salienti della partita con tanto di marcatori e tempo delle segnature, parlò di una discussa staffetta, persino di una maledizione di un certo Montezuma... Fino ad allora il gioco del calcio per me era solo vedere distrattamente in TV un mucchio di persone correre dietro ad una palla senza capire il motivo; di tutti quei giocatori conoscevo forse qualche nome, ma sarebbe stato difficile riconoscerli in una foto di gruppo. Dopo il racconto entusiasmante del ciccione mi era venuta una voglia irrefrenabile di seguire la prossima partita che sarebbe stata la finalissima, lo scontro decisivo contro i mitici carioca. Il guaio era che questi incontri si disputavano a tarda notte perché ...il Mexico era dall'altra parte del mondo. Topa capiva forse ancora meno di me di pallone, ma anche lui era stato invogliato ad assistere a questo avvenimento irripetibile; Cioffo ci aveva convinto che si trattava di una di quelle occasioni in cui si sarebbe poi potuto dire agli altri "c'ero anch'io", e non a tutti era concesso, soprattutto a noi bambini certe ore della notte erano proibite. Ma per noi malati, ci disse, esisteva una possibilità che agli altri era preclusa. Fu l'improvvisa passione per il pallone o il senso trasgressivo del proibito, non voglio approfondire, resta il fatto che in ogni caso ora dovevamo vedere assolutamente quella partita. Cominciarono le pressioni con l'infermiera, poi con altri inservienti; usammo tutte le armi a nostra disposizione compreso il ricatto e la tenacia ed infine riuscimmo a strappare la promessa di vedere la partita. Ci saremmo dovuti trasferire, nel cuore della notte, nella sala al piano terreno dedicata alle funzioni religiose, al cinema ed agli spettacoli in genere. Ricordo di avere assistito una volta all'esibizione di un illusionista che, per esibirsi su certi palcoscenici, doveva essere alquanto scarso, ma che comunque riuscì a spalancare le bocche di tutti i bambini. Qui c'era anche una TV con uno schermo quasi tondo da quanto era bombato che non ricordo di avere mai visto acceso. Il giorno fatidico tutti nella cameretta all'ultimo piano eravamo eccitatissimi, chiedevamo di continuo a chiunque capitasse l'ora, ma il tempo sembrava non passare mai. Quel pomeriggio non riuscimmo a fare la solita siesta, ma in compenso ora, non solo avevamo dato un volto ai nomi dei calciatori, quello delle figurine di Cioffo, ma conoscevamo a memoria perfino la formazione nemica, anche se le facce parevano tutte nere uguali si diceva che Pelè fosse diverso. Sul fare della sera decidemmo di istituire dei turni per evitare di addormentarci tutti assieme, anche se il bambino più robusto era sicuro di non avere sonno. A me toccò il primo turno di sonno. Mi risvegliai perché un raggio di sole mi batteva negli occhi. Anche senza aprirli capii che avevo dormito troppo e dalla rabbia sarei rimasto in quella posizione fino ai prossimi mondiali. Senza farmi accorgere socchiusi un occhio e vidi che Cioffo era seduto nel letto con un viso terribilmente serio, mentre Topa respirava affannosamente sotto il lenzuolo. Non riuscivo ad interpretare la desolazione del ciccione, quello sguardo sgomento significava partita persa o "mannaggia a me, mi sono addormentato". Poi arrivò l'infermiera, ci svegliò tutti e come se nulla fosse sbrigò le solite pratiche mediche, ci verso il te e se ne andò. Dopo alcuni minuti che ci guardavamo fissi, Cioffo mi disse che era andata male e raccontò i dettagli. Non riuscii mai a capire se avesse veramente visto la partita in TV, come ripetutamente sosteneva, o se i suoi racconti erano tratti da poche informazioni ricevute dal bagnino e poi elaborate ad arte. Era l'estate del 1970.
Fu forse l'ultimo anno che trascorsi nella colonia marina di Pinarella, di certo l'ultimo ricordo. Qualche giorno dopo il babbo mi portò a casa sulla sua millecento familiare bianca a cui mancava solo una piccola croce rossa sul tetto ... e l'aria buona di casa mi fece presto ritornare le forze.
Guardando per l'ennesima volta la foto mi accorgo solo ora di riconoscere a fatica quel bimbo magro senza berretto, ma con un'esagerazione di capelli, gli occhiali e tanto orgoglioso di sé; per cui mi chiedo se i ricordi che ho riportato siano realmente i suoi, o più propriamente i miei, cioè quelli di un uomo con pochi capelli e le lenti a contatto. Le persone cercano di ricostruire gli avvenimenti passati utilizzando le loro conoscenze odierne, con il risultato che spesso ricordano ciò che si aspettavano accadesse e non ciò che é realmente accaduto. Ho già detto che entrare a fondo in questi problemi si correrebbe il rischio di non venirne più fuori, molti altri lo hanno fatto e con pare non grande costrutto. In ogni caso ho tenuto fede all'impegno che mi ero preso: raccontare una fotografia in cui si mischiano, ai piedi di un gruppo di bambini, sabbia ed aghi di pino in seicento righe dattiloscritte.