domenica 21 febbraio 2010

L'abito non fa il monaco, ma ripara dal freddo (3p.)



Ugo riuscì a fatica a controllare le codate della trota, il cuore gli batteva a mille e nella convulsione del momento imbarcò una discreta quantità d’acqua negli stivali e stava quasi per scivolare su un ciottolo ricoperto di muschio, ma riuscì in qualche modo a riguadagnare la riva con la trota ancora all’amo. Poi la esaminò attentamente, (Accidenti, era veramente una grossa trota!) ma la sua faccia subito si oscurò vedendo in quale maniera si era attorcigliato il filo e chissà dove era sceso l’amo...

Seccato scaraventò canna e trota nel greto secco del fiume e si sedette su quel letto di pietre.

Si tolse gli stivali a fatica, le calze di lana erano zuppe, i piedi nodosi erano gelati e raggrinziti come la pelle di un vecchio. Erano rossastri come ciliege acerbe, mentre la pelle sotto le unghie e sopra le ossa era biancastra ed il tutto sembrava carne in mostra dal beccaio.

Si frugò nelle tasche ed estrasse lo scaldamani catalitico, era ancora carico, il contatto con le mani era piacevole. Poi accostò le piante dei piedi una contro l’altra provocando uno scricchiolio alle ginocchia e sentendo un forte dolore all’inguine, si mise quell’arnese caldo tra i piedi con lo stesso gusto con cui si mette una fetta di prosciutto tra due pezzi di pane fresco e tenendosi i ditoni con una mano, strizzando le calze con l’altra, restò cosi immobile finche sentì il sangue riscorrergli nelle vene violastre e sporgenti dei piedi. Tirò allora un profondo sospiro di sollievo.

In quell’istante di beatitudine Ugo andò col pensiero alla figura nera in controluce che aveva visto sul treno incorniciata dal finestrino come un quadro futurista o un ombra cinese.

Al passaggio del convoglio era rimasto incuriosito dal fatto che si fosse fermato proprio lì sopra: non era mai capitato; allora era subito sceso dalla pila per vedere cosa stava succedendo. Trovando una scena tranquilla, riprese la sua pesca ma ogni tanto tuttavia lo sguardo si posava su quel treno, quelle carrozze ferroviarie di legno laccato di bianco e di azzurro, gli sbuffi insofferenti della caldaia e soprattutto a quel finestrino in cui si vedeva più agitazione: figure di muovevano passando da una posizione all’altra, si incrociavano, si compenetravano, si fermavano viso a viso, passavano oltre ad altre finestre. Infine tutto tornò calmo, fermo, immobile. Solo una nera figura di donna si era sporta dal finestrino, un esile raggio di sole riuscì a mettere in luce solo un nero fazzoletto attorno alla testa, pure nera poiché in ombra.

La sosta si prolungava ed Ugo si sentiva infastidito da quella macchina a vapore che era venuta a rompere la sua pace, pensava che non c’era più posto dove fuggire, ma si trovava sempre più spesso attirato da quel finestrino, attratto da quella sagoma snella, ma possente, da quella donna sfuggente, né giovane né vecchia, né bella né brutta, né mora né bionda: nera!

Alternava lo sguardo tra il riverbero tremolante delle acque e il cangiante contorno nero dell’ombra rinchiusa nel finestrino come volute di fumo o lingue di fiamma. Ed il cuore si scaldò. Ripensò allora alla sua solitudine, alla sua incapacità di trattare con le donne, alle sue indecisioni, ai suoi ripensamenti, alle occasioni mancate... Contandole ora trovava che le avventure non erano state poche, ma per l’appunto erano rimaste solo avventure, storie senza spessore; tutto procedeva bene fintanto che la cosa rimaneva superficiale, non impegnativa, ma non appena vi era un accenno di approfondimento, la nascita di legami, di proposte per l’avvenire, di progetti anche semplici, Ugo perdeva la sua sicurezza, la sua calma, la sua pace.

La conoscenza vera di una donna, da accettare in blocco, pregi e difetti, mani e piedi, carne e spirito, passato e futuro, lo bloccava, lo spaventava fino a sentire i brividi sulla schiena e un freddo desolante in petto. Anche le forme sinuose ed abbondanti del corpo di lei, la sua pelle vellutata, il tal particolare eccitante ed irresistibile diventavano secondari, poi col tempo del tutto indifferenti come quelli di una statua di pietra di perfetta e subdola bellezza. Prendevano corpo invece quelle caratteristiche invisibili e impalpabili che sono il vero aspetto delle persone, prima sfumate e promettenti, poi chiare e contrastanti, infine nette ed immodificabili, inconciliabili coi desideri.

Così se ne erano andate dalla sua mente, e dalla sua vita, tutte le sue donne, così erano finite tutte le sue storie, lasciando solo in esile e serpeggiante traccia. E fosse stato solo con le donne! Nello stesso modo era finita con la famiglia, gli amici, i compagni del movimento, i colleghi di lavoro...

Ugo non voleva essere esplorato, sondato nel profondo da trivellazioni esterne; la conversazione su se stesso lo rendeva più nudo di quanto possa fare la nudità fisica che aveva invece sempre accettato con straordinaria naturalezza, il parlare delle proprie sensazioni lo rendeva vergognoso più di qualsiasi atto immorale che pur non essendo incline a compiere era ben disposto a perdonare, a comprendere. Era anche per questo che non aveva alcun interesse a trivellare gli altri, nessuna voglia di scoprire tesori sepolti, vene segrete o fiumi sotterranei.

Gli ambienti chiusi, angusti, bui, gli avevano sempre dato un forte fastidio fisico, le grotte erano state il suo terrore di bambino. Preferiva restare in superficie, alla luce, sotto la volta celeste.

Di questa superficie preferiva poi quella meno rimaneggiata dall’uomo, la natura incontaminata che da bambino aveva avuto a portata di mano e poi con gli anni dovette iniziare a cercarla sempre più lontano, sempre più disperatamente.

La montagna, il bosco, il ruscello, la pesca derivavano da tutto questo. Ma un altro fatto giustificava la scelta della pesca al posto di un altra attività come ad esempio il cercar funghi, l’arrampicarsi sulle alte vette, il camminare semplicemente per il gusto di farlo: l’amore per il rito.

La vita programmata, senza sorprese, che si dipana secondo un calendario minuziosamente predeterminato e a cui non sfugge neppure l’azione più stupida, il gesto più banale riscuoteva su di lui un fascino irresistibile, ipnotico. La pesca era un rito o meglio la pesca di Ugo era un rito: nulla era lasciato al caso o all’imprevisto, l’importante non era prendere il pesce, ma svolgere, esattamente come si era pensato, ogni singola azione nel migliore dei modi possibile e nel dovuto ordine temporale senza dimenticare nulla. Durante il rito il tempo passava a velocità elevatissima, tanto più elevata quanto più i gesti si facevano lenti ed i pensieri erano leggeri e pacati. La pesca era un rito positivo perché non era imposto da altri, ma scelto da chi lo officiava; lo stupido lavoro di operaio era un rito negativo perché veniva elaborato dal padrone e subito da Ugo che lo doveva svolgere, anzi vi doveva assistere, senza poter essere cosciente della più piccola fase o attività particolare. Comunque anche questo stupido lavoro rituale era sempre meglio dell’improvvisazione, dell’insensatezza, del caos della vita moderna.

Ad un certo momento l’ombra nera si voltò di fianco e Ugo vide per un attimo le linee flessuose di quel corpo stagliarsi come orizzonti lontani nella luce del finestrino; la donna si era confusa con la natura. Fu un attimo, poi i contorni ripresero una forma tozza e anonima finché scomparve quasi dalla vista; rimase solo una pallina avvolta da un fazzoletto.

Ugo provò a pensare a chi appartenesse quell’ombra, chi era la donna che l’indossava, ma questo era un esercizio tutt’altro che rituale, richiedeva invece notevoli doti di analisi, di intuito, di fantasia; ma questo non era il fatto più preoccupante: il difficile era non avere il minimo riferimento, il più incerto tracciato da seguire che non fosse quell’ombra nera che cambiava forma ogni secondo.

Ben presto Ugo esausto pensò ad altro, al fatto che proprio questo pensare, questi pensieri non facevano parte del rito della pesca, erano un imprevisto, come lo era la sosta del treno sul ponte, come lo era in fondo anche la cattura della trota.

Ad un tratto si girò e guardando il pesce si stupì nell’avvertire che le branchie si gonfiavano e si sgonfiavano con lo stesso ritmo con cui lavoravano i suoi polmoni ancora in debito di ossigeno dopo lo sforzo imprevisto; dalla bocca della trota usciva un sottilissimo filo, dalla sua una lieve bava di fiato.

Improvvisamente la trota diede un ultimo colpo di coda e poi rimase immobile, grigia e opaca come tanti altri innumerevoli sassi.

Il sole cominciava già a scendere tra le cime del bosco vecchio.

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