venerdì 22 gennaio 2010

L’abito non fa il monaco, ma ripara dal freddo (1a parte)

C’erano due volte sotto un ponte, in una scorreva un’acqua verde e gelida, l’altra era colma di sassolini piatti, levigati, secchi e colorati, monete di vecchie ere geologiche.

Ugo pescava con la mosca immediatamente a valle del ponte, dove il torrente faceva una buca piccola e profonda; l’acqua rallentava il suo flusso dopo avere accelerato in una cascatella bassa e stretta tra due gengoni. L’acqua era talmente limpida che le trote vedevano il pescatore e non abboccavano; si limitavano a girare attorno all’esca con grande tormento.

Ugo non era un grande pescatore, tanto che, se avesse dovuto vivere di quel che pescava, sarebbe già morto da tempo. Veniva a pescare in questo sperduto torrente alpino principalmente perché era in cerca di quiete al suo mare interiore che solo i rumori della natura ancora intatta riuscivano a calmare. Il gorgoglio dell’acqua sui sassi rotondi, l’odore del muschio che divorava i gengoni caduti chissà da dove, il lamento del cuculo proveniente da qualche punto indeterminato del bosco vecchio, le scie resinose che ogni tanto il vento portava sotto le sue narici, il freddo pungente del mattino che era un tutt’uno col silenzio circostante, quasi doloroso dopo una intera settimana passata nel frastuono caotico della grande città.

Si era svegliato presto, in silenzio per non svegliare nessuno in casa, era sceso ancora in pigiama nel fondo dove si era vestito da pescatore: mutande di lana lunghe, camicia di fustagno, maglione pesante, pantaloni di velluto a grandi coste, lunghi stivali di gomma, giacca di tela cerata e in testa un basco rosso, unico tocco eccentrico e personale. Si riempì le tasche del giubbotto di tutto il necessario per la giornata di un pescatore: sigarette, accendino, pipa e tabacco, caramelle e ...scaldamani catalitico; prese la cassetta da pesca già pronta dalla sera prima e si avviò sul suo vecchio motorino verso la meta agognata.

Il mezzo soffriva inerpicandosi sui tornanti che portavano al torrente, il fondo stradale era sempre più sconnesso man mano che si saliva: grosse buche colme d’acqua colorata erano come ostacoli di gimcana da superare.

Ugo respirava a pieni polmoni, si guardava attorno distratto come fosse la prima volta che capitava da quelle parti, tutto lo incuriosiva, tutto guardava, tranne la strada e ogni tanto finiva nelle buche spruzzando la broda tutt’intorno. Ogni buca era un goal che Ugo sottolineava con un urlo dirompente di gioia presto inghiottito tra le frasche del bosco che lambiva la strada, gli schizzi d’acqua erano come l’esplosione di uno stadio all’idolo vincitore.

Ugo era felice e più Ugo era felice e più il formichino soffriva; ma era un mezzo meccanico sottomesso all’uomo senza neppure più la possibilità di scartare di lato come avrebbe fatto un bisonte inferocito o imbizzarrirsi come un cavallo pazzo. Le leve di comando erano saldamente nelle mani e nei piedi dell’uomo e rispondevano meccanicamente, con un preciso ed immutabile rapporto, alla sua forza.

Cominciò il tratto sterrato, dove la terra aveva un colore rosato come il volto di una madonna rinascimentale. Ugo si senti ispirato da romanticismo e cominciò a zigzagare allungando il tragitto ma riducendo la pendenza per favorire il Rumi che sbuffava nel tubicino di scarico come il vapore in una ciminiera incrostata. Le ruote lisce slittavano sui sassi più fini, lanciando quelli più grossi dietro o di lato: ogni ostacolo sul loro cammino rispondeva con un secco suono che contrappuntava quello lamentoso e monotono del motore imballato.

Il sole era ancora sotto le montagne.

Ugo estrasse una sigaretta senza filtro dalla tasca del giubbetto, l’accese parando la fiamma con la mano nodosa, inspirò profondamente il fumo in gola guardando intensamente il galleggiante fucsia, cercando di cogliere un moto sospetto. Non vedendolo, chiuse per un attimo gli occhi poi espirò tutto il fumo ...ed anche qualcos’altro. Era ormai fermo da diverse ore sul greto del ruscello, la sua rete era vuota come pure il pacchetto di Nazionali. Ogni tanto cambiava la mosca, ma il risultato era sempre il medesimo; comunque non si arrabbiava, la pesca non era fatta per arrabbiarsi, ma al contrario per rilassare. Secondo la sua teoria, ed Ugo ne aveva diverse di queste teorie riguardo i più svariati aspetti della vita e tutte a loro modo originali, prendere il pesce equivaleva ad un guaio: tirandolo fuori poteva slamare, poteva essere sottomisura e bisognava rilasciarlo, l’amo poteva conficcarsi nelle pieghe più profonde della bocca, servivano arnesi, poteva dibattersi, bisognava stordirlo sbattendolo su una grossa pietra...

Era molto meglio che non abboccassero. Di questa ipotesi, per altro ricorrente, ne aveva fatto un vanto con gli amici al bar ed un dettaglio insignificante a casa.

Finito il pacco di sigarette passava alla pipa, non prima di essersi ripulito la bocca con alcune caramelle di menta e liquirizia. Per preparare il tabacco occorreva una pausa poiché servivano entrambe le mani. Allora si sedeva sopra la pila centrale del ponte e durante il rito dell’accensione passava, con precisione cronometrica l’accelerato delle 9.54, lo stesso che era passato già alle 6.14, mentre Ugo scendeva il ripido e stretto sentiero che collegava la strada al ruscello, con il carico di lavoratori da portare nella grande città. Ora era quasi vuoto se si esclude l’equipaggio e qualche comare della valle che tornava con la borsa della spesa ricolma.

Questo treno era l’unico rimasto su quella linea secondaria destinata ad essere potata prima o poi, ma prima avrebbero dovuto sistemare la strada. Il treno era anche l’unico contatto in quei luoghi tra la natura, vecchia come il mondo, e la nuova società industriale appena trapiantata, tra un’epoca imprecisata dominata dalla vegetazione e dagli animali e l’epoca moderna dominata dall’uomo e dalle sue macchine. Senza quel treno Ugo sarebbe potuto essere l’uomo delle caverne che pescava con la clava (a proposito sarebbe stato un problema!) oppure il villico romano che pescava con la rete di corda oppure il cavaliere errante che guadava il fiume a cavallo della sua bianca giumenta, oppure lo zoticone di tutte le epoche che beveva a quella limpida fonte, o semplicemente il suo avo materno con la parrucca bianca che in quei luoghi aveva fatto il guardiaboschi al tempo dell’invasione napoleonica.

Spesso tra una sigaretta e l’altra sognava quelle storie dove i contorni cambiavano, ma lui era sempre il protagonista: il re Ugus, l’imperatore Ugo I (e ultimo), il terribile bandito Brugo il bruto, il generale Ugorsky al comando delle truppe austroungariche, il celebre artista Ugo Ughi di passaggio tra questi monti durante una tournée per le contrade d’Europa...

Si sarebbe potuto tranquillamente dire che per Ugo andare a pesca era come andare a teatro, se si potesse farlo senza pagare il biglietto.

Il fischio del treno, e soprattutto il tremito del pilone, lo riportarono invece alla realtà, alla divisione tra metropoli e montagna, alla incompatibilità tra azioni e sogni, al fumo nero e denso dell’industria, al rumore assordante del traffico, al suo stupido e ripetitivo lavoro, alla sua sciocca ed insignificante vita, uguale a quella di tanti altri come lui.

Ugo faceva il tornitore in una industria meccanica che si occupava di armi ed equipaggiamenti bellici. Tutto era cominciato perché la sua famiglia era da diverse generazioni una famiglia di armaioli e allora suo padre lo mandò alla regia scuola professionale per tornitore per prepararlo al lavoro di bottega; ma poi il padre morì troppo presto senza riuscire a trasmettere ad Ugo il difficile mestiere. Cercò allora aiuto dagli zii, anche loro abili artigiani, ma i tempi erano difficili ed i figli tanti, per cui il nipote passava sempre più giù nella lista d’attesa. Si limitarono a mettere, accanto al cognome, una parola buona per l’assunzione in fabbrica. Ugo non era tagliato per la fabbrica, per molte cose non era tagliato per la verità, e quella fu per lui come un’assunzione in galera e ben presto cominciò a pensare all’evasione.

Ora dopo alcuni anni si può dire che se non si era abituato comunque se ne era fatto una ragione; il lavoro era solo una parentesi nella sua vita, una lunga parentesi ma d’altra parte non più lunga di quella parentesi che la maggior parte degli uomini dedicano a dormire. Ugo si rifaceva di questo inconveniente proprio rubando le ore al sonno per dedicarle alle sue passioni.

Come tutti i veri armaioli, non andava a caccia: il fucile era da considerarsi un’opera d’arte e non una semplice arma parente evoluta della fionda; il fucile si doveva esporre nella fuciliera, appendere al muro, accudire come un bambino, accarezzare come una signora, ma mai consumarlo nella dura e perigliosa attività venatoria. Allora ricercando il contatto con quella natura che aveva riempito la sua infanzia, non gli rimaneva che l’attività della pesca.

Il sole era ormai uscito allo scoperto.


(continua)

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